L’INTERVISTA: STORIA, TECNICHE ED
EVOLUZIONE DI UN GENERE GIORNALISTICO
Capitolo 1
Definizione di intervista e sua evoluzione
storica
1.2 L’evoluzione storica dell’intervista
2.1 Perché si leggono, si chiedono e si rilasciano le interviste
2.2 Le tipologie di intervista scritta
2.4 L’intervista nei settori del giornale
2.6 Stampa e televisione: come cambia l’intervista
Capitolo 3
La tecnica giornalistica dell’intervista
3.3 L’incontro con l’intervistato
3.4 Registratore e block notes
3.6 Far rileggere l’intervista?
3.7 Che cosa rischia il giornalista
L’intervista attraverso quattro autori
Capitolo 5
Un’interpretazione semiotica del genere
Appendice
Conversazione in chat con Claudio Sabelli Fioretti
Questa tesi nasce dal desiderio di esplorare una tecnica tanto
diffusa quanto sottovalutata da manuali e libri dedicati al giornalismo. Nei
testi specialistici all’intervista si dedicano sempre poche pagine, quando
invece si potrebbe parlare per volumi interi dell’affascinante pratica di
scavare nella psicologia e nel carattere delle persone. Così, grazie al prezioso aiuto del prof.
Santambrogio, ho cercato di analizzare
il genere giornalistico dell’intervista con un occhio particolare alla
sua storia, alla tecnica e agli stili di alcuni intervistatori tra i più
famosi. Per evitare di perdere la bussola, abbiamo privilegiato l’intervista
scritta con le sue regole e le sue trappole, anche se non abbiamo dimenticato
né l’intervista televisiva né quella radiofonica.
Il lavoro è partito da una conversazione primaverile con il
giornalista Enzo Magrì, il quale grazie alla sua grande esperienza mi ha
fornito le coordinate essenziali per orientarmi nel marasma di nomi, date,
giornalisti e riferimenti da non trascurare. Poi mi sono dedicato alla
ricostruzione storica del genere, individuando alcuni punti fondamentali che
hanno permesso all’intervista di diventare una pratica così abituale.
Con l’ausilio della ricerca di archivio e il supporto di alcuni testi
di giornalismo ho provato inoltre a comporre una classificazione plausibile
delle tipologie di intervista in base alla forma, al contenuto e al mezzo di
comunicazione utilizzato.
Nel terzo capitolo si analizzano i vari momenti dell’incontro con
l’intervistato, dalla indispensabile preparazione fino alla rielaborazione.
Di grandi intervistatori ce ne sarebbero tanti, ma per motivi di
spazio abbiamo deciso di analizzare sistematicamente lo stile di quattro
autori: Oriana Fallaci, Roberto Gervaso, Alain Elkann e Claudio Sabelli
Fioretti. Con quest’ultimo ho avuto anche la fortuna di dialogare via chat una
domenica sera: dalla sua disponibilità è nata un’intervista utilissima alla
tesi che abbiamo voluto inserire integralmente in appendice.
Un'altra persona che è stata fondamentale per la realizzazione della
tesi è stata Stefano Lorenzetto, giornalista del Giornale che considero
attualmente l’interprete migliore dell’intervista scritta. Alla
richiesta di informazioni per la tesi mi ha inviato i suoi appunti di un
intervento che aveva fatto al Master Mondadori sull’intervista, e ha
gentilmente risposto telefonicamente a tutti i miei dubbi e alle mie domande
con grande cortesia.
Nelle ultime pagine della tesi propongo un’interpretazione semiotica
del genere dell’intervista attraverso le parole del professor Armando Fumagalli
della nostra Università.
Proprio in Università Cattolica è intervenuto qualche mese fa Beppe
Severgnini, il quale ci ha parlato anche dell’intervista giornalistica;
successivamente mi ha indicato personalmente alcune delle sue interviste più significative.
Il risultato è un testo scaturito dall’analisi meticolosa di numerose
interviste del passato e del presente, da un lungo lavoro in biblioteca per
recuperare vecchi dialoghi, dalla visione di alcune interviste televisive e
dalle conversazioni con i giornalisti professionisti.
La parte più affascinante del lavoro è stata proprio la possibilità
di entrare in contatto con alcuni intervistatori che mi hanno aiutato con la
loro esperienza e professionalità.
Li ringrazio tutti con la speranza un giorno di poter imparare
anch’io qualche segreto della “cosa più bella e difficile del mondo”, come l’ha
definita Gianni Minoli: fare un’intervista.
Quando si
scorrono le pagine dei manuali di
giornalismo, e si leggono le poche righe da essi dedicati all’intervista, ci si
imbatte spesso nella frase di Leo Longanesi[1]:
“L’intervista è un articolo rubato”. Nel senso che è un pezzo fatto da un'altra
persona, l’intervistato, di cui si riportano le dichiarazioni così come vengono
dette. Per questo motivo l’intervista è descritta ironicamente come un genere
giornalistico all’apparenza semplice nella preparazione e nella elaborazione.
Scrivere
un’intervista per i giornali, realizzarla per la radio o la televisione può davvero sembrare facile: a una serie di
domande corrisponde una serie di risposte. I lettori ormai sono abituati ogni
giorno a trovare numerose interviste sui quotidiani, e a vedere tante persone –
dai massimi esperti fino ai passanti - interpellate dal cronista televisivo di
turno sui più disparati argomenti. Spesso può apparire anche una pratica
ripetitiva se non banale: non si fatica a trovare intervistatori che fanno
domande sciocche e ottengono risposte altrettanto sciocche o banali.
In realtà l’intervista “è la forma di
comunicazione giornalistica più tecnica, il caso più limpido in cui la notizia
è ciò che ne fa il giornalista”[2].
Ha delle
regole da seguire che però da sole non garantiscono il successo; richiede
equilibrio, caparbietà, distacco; ancora, è un “mestiere” che si impara con
l’esperienza. Bisogna confrontarsi ogni
volta con interlocutori sempre diversi, avendo la consapevolezza che una parola
di troppo, un’insicurezza, un’imprecisione possono indispettire l’intervistato
e mandarla all’aria da un momento all’altro. Per questo l’intervista è
un’esperienza di fronte alla quale ciascun giornalista ha il proprio modo
specifico di comportarsi, acquisito negli anni anche attraverso gaffes e insuccessi.
Mario Furlan,
collaboratore del Giorno e di altre testate nazionali, sostiene che
l’intervista “è un colloquio in presa diretta tra un giornalista e un
interlocutore che lo ha accettato conoscendone gli scopi: rendere pubbliche le
risposte” [3].
Il giornalista
Sergio Lepri, direttore dell’agenzia ANSA dal 1961 al 1990, riprende e
approfondisce questo concetto: “E’ una definizione onesta, contraddetta però da
alcuni modi in uso da qualche tempo e un po’ truffaldini: trasformando in
intervista una conversazione casuale o una dichiarazione che viene interrotta
dalle domande; oppure fingendo che sia intervista esclusiva al giornalista
quella che in realtà è una conferenza stampa fatta con più giornalisti”[4].
Le trappole
sono all’ordine del giorno, e c’è sempre il rischio di un uso inflazionato e
sbiadito. L’esperto Furio Colombo, ex direttore della Stampa e
attualmente direttore dell’Unità, arriva ad una conclusione lapidaria:
“L’intervista è lo strumento giornalistico più arrischiato e imperfetto;
dovrebbe avere il ruolo che ha la chirurgia per la medicina: qualcosa a cui si
ricorre se non ci sono altre soluzioni”[5].
Un faccia a
faccia che a volte si trasforma in un confronto serrato, altre volte diventa
una conversazione rilassata. Durante un’intervista entrano in gioco molti
fattori che la indirizzano verso i binari della originalità, della
prevedibilità o addirittura della noia.
Ma che cosa
intendiamo quando parliamo di intervista?
I dialoghi di
Oriana Fallaci con i potenti della terra, i faccia a faccia nottambuli di
Marzullo, le conversazioni radiofoniche con gli scrittori, le domande dei
telegiornali ai passanti sulle tendenze dell’estate, le dichiarazioni
giornaliere dei nostri politici: queste sono tutte interviste, anche se alcune
sono più nobili di altre.
Il giornalista
Gianni Minoli si è affermato negli anni grazie alle sue interviste
televisive, nel programma Mixer
da lui ideato e trasmesso negli anni ’90 su Rai2. Nella prefazione alla
raccolta di interviste Tipi Italiani di Stefano Lorenzetto, giornalista
del Giornale, ha scritto così:
“Fare un’intervista è la cosa più bella che ci
sia perché dalla dialettica tra due esperienze (dell’intervistatore e
dell’intervistato) nasce inevitabilmente una terza esperienza, quella
dell’incontro, e dunque, di un arricchimento umano, psicologico, culturale”[6].
Paul Mc Laughlin, è produttore,
ricercatore e intervistatore per la CBC, la radio di stato canadese. Insegnante
di giornalismo al Ryerson Polytechnical Institute of Toronto, definisce
l’intervista “un’arte: una complicata disciplina che fonde preparazione e
spontaneità in un cocktail forte e talvolta pericoloso. Come ogni forma d’arte,
si può praticare a diversi livelli, a seconda del talento innato, del duro
lavoro e della creatività di chi la esercita”[7].
Nonostante sia
una affermazione forte, non è priva di fondamento se proviamo a considerare
l’etimologia del termine “intervista”: il vocabolo italiano è un calco
dell’inglese interview, il quale deriva a sua volta dal francese “s’entrevoir”,
cioè “vedersi reciprocamente”.
Il segreto
principale dell’intervista risiede in questa opportunità straordinaria per
l’intervistatore: conoscere se stesso attraverso la scoperta delle idee altrui.
1.2 L’evoluzione
storica dell’intervista
Un
primo antenato
Gli uomini si
sono sempre fatti delle domande. Sul mondo che li circonda, su loro stessi,
sulla propria origine e il proprio destino. Non stupisce quindi che nel
giornalismo si sia diffusa progressivamente la tendenza a porre delle domande.
Il dovere di informare implica la ricerca delle informazioni, e per forza di
cose qualsiasi articolo di cronaca è composto anche da domande a persone, testimoni o esperti: tasselli
indispensabili per comporre il mosaico
della notizia.
Il giornalismo
è riuscito a far sua questa tendenza dell’uomo a formulare domande, sfruttata
prima di tutto dalla filosofia. Lo sostiene Furio Colombo: “L’intervista ha una
origine nobile, filosofica e letteraria, ha la sua radice in tutta la catena di
dialoghi che hanno segnato la storia del sapere”[8].
Enzo Magrì,
giornalista e inviato dell’Europeo negli anni ’70, per il quale ha
scritto centinaia di interviste, ne spiega la nascita: “L’intervista è stata
sicuramente inventata da Platone, attraverso il diario filosofico elevato a
genere letterario; il giornalismo ne ha fatto poi largo uso durante la sua storia”[9].
Il filosofo di
Atene (427-347 a.C), dunque, creò il modello ineguagliato di dialogo
filosofico, e si può considerare il precursore di quella che sui giornali
diventerà l’intervista. Platone scelse l’uso del dialogo perché tramite questa
struttura narrativa era più facile veicolare i concetti filosofici del suo
maestro Socrate, protagonista dei suoi scritti più famosi. Il vocabolo dialogo,
dal greco dialogos, deriva dalla radice dia (attraverso) e dal
verbo léghein (parlare e pensare insieme): già in origine conteneva
l’idea di un confronto tra due persone, al fine di migliorare la conoscenza
sulle cose. Nella parola tra l’altro è compreso anche il termine logos,
cioè discorso.
I lettori
avrebbero avuto una maggiore difficoltà a comprendere i precetti socratici se
fossero stati scritti in forma di monologhi: ecco perché Platone affianca al
suo maestro dei personaggi che di volta in volta gli fanno da spalla
interrogandolo sui temi a lui più cari. Certo, queste figure sono strumentali
alla narrazione, non hanno le conoscenze del filosofo e in certi casi sembrano
sprovveduti (proprio come certi giornalisti che non si preparano prima delle
interviste).
Questi
antenati delle moderne interviste esprimono, attraverso il rapido susseguirsi
di domande e risposte, la tecnica filosofica della maieutica: la capacità di tirar fuori man mano i concetti e le idee
dell’interlocutore facendolo ragionare con le giuste domande.
Ad esempio nel
Critone (scritto tra il 396 e il 388 a.C.) l’ amico fidato di Socrate, che dà
il titolo all’opera, lo visita in carcere il giorno prima della sua condanna,
proponendogli la fuga in esilio al posto della morte. Dal rifiuto del filosofo nasce un dialogo
sui temi della morte, della virtù e
della giustizia. Ovviamente non c’è una trascrizione di frasi realmente dette,
e l’ordine della conversazione risponde alla costruzione narrativa. Mediante le
domande, le obiezioni e le argomentazioni, il personaggio Socrate illumina la
coscienza di Critone.
Socrate: Si tratta dunque di apprezzare le opinioni buone, ma non
quelle cattive?
Critone: Sì
E buone non sono forse quelle degli uomini saggi, cattive quelle
degli stolti?
E come no?…
Ora dimmi come la mettevamo su quest’altro punto… Uno che si dedica
specificamente alla ginnastica fa attenzione all’elogio, al biasimo e
all’opinione di chiunque o solamente di un medico o un istruttore?
Solamente di costui.
Dunque è il caso di temere i
rimproverare o gradire gli elogi di quello solo, non della gente in genere.
Chiaro.
Dovrà allora comportarsi e far ginnastica, e mangiare e bere,
seguendo le direttive di quell’unico che è esperto e ci capisce, piuttosto che
di altri.
Proprio così.
Bene… E se d’altro canto a quell’unico vorrà disubbidire opinioni ed
elogi e privilegiando quelli della gente, che pur non ne capisce niente, non ne
risentirà alcun danno?
E come no?
E che tipo di danno? Dove tende, a quale parte della persona del disubbidiente?
Ma è chiaro, al corpo: è questo, che ci rovina.
Giusto[10].
L’ingresso
dell’intervista nel giornalismo
Il genere
giornalistico dell’intervista fa la sua apparizione in America, paese
anticipatore delle più importanti trasformazioni della professione giornalistica.
Il primo
esempio esce sul Paul Pry di
Washington nel 1831. E’ un pezzo scritto dal direttore Anne Royall, che
rielabora e riassume le risposte del presidente degli Stati Uniti John Quincy
Adams. La giornalista lo incontrò sulle rive del fiume Potomac, dove Adams
andava spesso a nuotare, e lo sottopose ad una serie di domande restandosene
tranquillamente seduta vicino a lui.
La Royall non
ricorre alle virgolette come segno di un pensiero e di parole riportate
fedelmente dall’intervistato: questo espediente nasce qualche anno più tardi,
tra il 1859 e il 1869. Sulla data esatta è ancora in corso una disputa tra due
scuole di pensiero.
Felice Cunsolo
nel Giornale dell’Ottocento opta per la prima data con riferimento al
giornalista Horace Greeley; l’Oxford Dictionary invece (citando la Westminster
Gazette del 1897), considera il giornalista Joseph McCullagh di Sant Louis
l’inventore della moderna intervista nel 1869.
Il genere ha subito fortuna in area
anglosassone, se nel Dicembre di quello stesso 1869 sul Sun escono
interviste a “Corbin, Fisk…and whoever else has any story to tell are axe to
grind”,[11] e il
Daily News riporta sulle sue pagine una considerazione sulla nuova
tendenza americana: “A portion of the daily newspapers of New York are bringing
the profession of Journalism into contempt, so far as they can, by any kind of
toadyism or flunkeyism, which they call “interwieving”[12].
Ben presto sui
giornali si afferma anche l’aspetto contraddittorio dell’intervista, ed
emergono le denunce dei suoi limiti. Sull’ American Review del 1878 si
legge infatti che “l’intervistato muta facilmente le proprie opinioni con
grande facilità. Sulla Pall Mall Gazette
del 1886 si legge addirittura che “The
interview it is the worst feature of the
new sistem. It is degrading to the interviewer, disgusting to the interviewed,
and tiresome the public”[13].
In Italia è
difficile stabilire con precisione, in assenza di uno spoglio sistematico dei
quotidiani ottocenteschi, l’anno esatto in cui il genere dell’intervista venne
introdotto per la prima volta: gli unici riferimenti sono demandati alla
memorialistica.
Possiamo
individuare come punto di partenza l’inchiesta di Carlo Romussi per Il Secolo,
in occasione di un’inondazione del fiume Po avvenuta nel 1879. Questi articoli
presentano alcuni momenti dialogici nei quali il giornalista intervista sindaci
e visita villaggi abbandonati raccogliendo racconti e testimonianze per
ricostruire le cause del disastro.
Nel nostro
Paese il genere dell’intervista trovò subito resistenze e ironie, come si
evince da alcuni passi del libro Il Ventre di Milano. Qui si legge che i
giornalisti “usano questo espediente per tirare innanzi nella concorrenza.
Hanno inventato – copiando gli americani - l’interviewage. I reporters non
bastavano. Ci volevano anche gli intervistai”.[14]
Manca una
definizione precisa dei giornalisti dediti a tale tecnica (gli “intervistai”),
e l’autore non esita a elencare i limiti e le problematiche di queste prime
interviste nei giornali italiani:
“L’interviewage
non vale qualcosa a patto di riportare le risposte di quegli uomini illustri
per ingegno o per avventure, che essi non sono obbligati di nascondere. (…) È
difficile il dire se sono più coraggiosi costoro che si presentano sconosciuti
alla notorietà diplomatiche, tentando di cavar loro i calcetti o se sono più
ingenui le notorietà che non li mettono alla porta. La maggior parte dei
giornali fingono l’intervista diplomatica e inventano il dialogo più o meno
spiritosamente. Ma se non lo fingono peggio ancora”.[15]
La disamina
linguistica conferma il sospetto radicato in Italia intorno all’intervista: un
po’ tutti i vocabolari la bollano come “gemma gallo-italica”, a partire dal
Fanfani-Arlia del 1877.
Ferdinando
Martini, governatore dell’Eritrea a fine secolo, finì addirittura nei guai per
una intervista concessa ad un corrispondente del quotidiano La Nazione
di nome Errera. Nel suo Diario Eritreo (1898), Martini racconta che
questa conversazione, definita anche “intervista” o “colloquio confidenziale”,
provocò un immediato telegramma del
presidente del Consiglio Di Ridunì il quale lo invitava “a dirgli se vera la
mia intervista con l’Errera e se si può smentirla per tranquillizzare gli
amici”[16].
L’intervista,
nonostante le diffidenze, comincia lentamente a diffondersi come genere
giornalistico.
Umberto
Notari, giornalista-scrittore e personalità geniale di inizio ‘900, vende
209mila copie con il suo romanzo Quelle signore, costruito come
reportage tra le signorine della case chiuse intervistate dall’autore.
Secondo il
Dizionario biografico del 1904, Notari è “il primo e unico intervistatore che
vanti la stampa cosmopolita. Ha avuto colloqui con tutte le celebrità della
terra, del mare e del cielo. (…) Dovunque gli sia dato di trovare il suo uomo o
la sua donna, Carducci o Lina Cavalieri, Guglielmo Marconi, Santos Dumont o
Yvette Guilbert l’abboccamento è fatto e una colonna di scintillante dialogo ne
è la conseguenza inevitabile”[17].
Il
“Giornale d’Italia” di Bergamini
In Italia il
primo giornalista a usare le interviste in modo sistematico è Alberto
Bergamini, direttore del quotidiano Giornale d’Italia dal 1901 al 1903.
Ha il merito
di rivoluzionare il modo di fare giornalismo nei quotidiani: inventa la terza
pagina culturale in occasione della “Francesca da Rimini” al teatro Costanzi di
Roma nel 1901, pubblica numerose inchieste, lancia la corrispondenza con i
lettori e inserisce in prima pagina le interviste. Il risultato è un “giornale
di tutte le cose gravi, serie, e anche oziose”. Il Giornale d’Italia di
Bergamini si presenta così: quattro fogli, un formato lenzuolo e sei colonne
per pagina dove sono collocate una sopra l’altra le notizie. Il 19 Novembre
1901 troviamo nel terzo numero del
giornale la prima intervista, collocata
in prima pagina, nella parte alta della seconda colonna. Viene
intitolata “Intervista a Santos Dumont”: si tratta di un colloquio di poche
righe, riportato in forma indiretta, con il famoso aeronauta. Il breve articolo
di una trentina di righe non è firmato e inizia così:
“Ci telegrafano da Montecarlo, 18 Nov: Ho parlato lungamente con
Santos Dumont che venne qui per i preparativi del suo nuovo e ardito cimento Mi
spiegò il nuovo tragitto che egli si propone di compiere…”.[18]
Nel pezzo
telegrafato spicca la deferenza e il rispetto con cui l’inviato tratta il
personaggio. Non ci sono virgolette, piuttosto è un racconto in terza persona
(“Egli costruisce/ Egli attraverserà il Mediterraneo”) senza alcuna chiosa,
commento o opinione dell’intervistatore.
All’inizio del
pezzo si comunica ai lettori che si tratta di un’intervista giunta al giornale
via telegrafo, scaturita da una breve conversazione con Dumont. Durante il
biennio della direzione Bergamini le interviste in prima pagina guadagnano
sempre più spazio fino a occupare quasi tre colonne con l’intervista a Marconi
del 5 Febbraio 1902 (sottotitolo: La
vittoria della telegrafia senza fili – Una scommessa di Guglielmo Marconi – i
benefici della nuova invenzione – L’Italianità di Marconi).
Si passa dai
colloqui con personaggi di spicco come il capo del ministero belga, il Cardinal
Ferrari, il socialista Filippo Turati e la regina Natalia, alle conversazioni
con i protagonisti dei fatti di cronaca come il bandito Musolino: chi spende i
suoi 5 centesimi per acquistare il Giornale d’Italia trova ogni giorno in prima
pagina un’intervista autorevole sui temi d’attualità.
Pur variando
in ampiezza e importanza dell’intervistato, possiamo individuare alcuni tratti
comuni alle interviste del Giornale d’Italia nel biennio 1901-03:
a) Lo stile colto e letterario, che ha
influenzato il nostro giornalismo sin dalla nascita: le interviste sono dirette
ad un ristretto pubblico di elite.
“Mentre Guglielmo Marconi mi parlava così, io lo guardavo con stupore
indicibile. Mi pareva che il suo volto si trasfigurasse, che sotto la gelida
maschera dello scienziato apparisse allora soltanto la figura del filantropo”[19].
b) C’è sempre una introduzione che
presenta il personaggio e descrive l’occasione nel quale l’incontro è avvenuto.
“Ho potuto avere al Grande Hotel un colloquio con senatore Tsudzuki,
persona di finissima conversazione e d’una intelligenza e larghezza di vedute
che molti uomini politici d’altri paesi potrebbero invidiare”[20].
c) L’autore evita di esprimere commenti e
opinioni, e esplicita questo proposito nell’articolo riporterà fedelmente il
contenuto del dialogo, come nel colloquio con il brigante Musolino, del 7
Gennaio 1902:
“Vi comunico fedelmente le sue impressioni senza aggiungervi niente
di mio”.[21]
d) L’intervistato è sempre trattato con
rispetto ed ossequio, soprattutto se personalità nobile o influente o della
aristocrazia.
Riportiamo come esempio l’intervista al conte de Bulow, 2 Aprile
1902:
“Il conte de Bulow, cancelliere di Germania, mi ha fatto l’onore di
ricevermi e ha avuto la cortesia di rispondere ad alcune domande che mi sono
permesso di rivolgergli”[22].
Oppure nell’intervista alla regina Natalia del 5 Maggio 1902:
“La regina mi parlava nel
mezzo della sala azzurra appoggiata ad un
tavolo, in attitudine graziosa e priva di affettazione. Sa di esser
ancora bella: mirandola sotto la luce discreta del grande lampadario di Venezia
che pioveva sulla figura di lei, compresi come ella sentisse l’affetto che la
sua figura produce nell’intervistatore.
e) Se oggi si presume che il rapporto tra intervistato
e intervistatore sia di parità, al tempo non era così. Lo si vede bene nell’intervista al maggiore
Nerazzini, del 30 Maggio 1902:
“Non era il caso di turbare le sue prime ora della dolce intimità
domestica con inopportune conversazioni. Tuttavia il maggiore Nerazzini non si
rifiutò di rispondere ad alcune mie domande”. Dopo un introduzione così
naturalmente non leggeremo domande scomode o impertinenti. Già tanto che il
console abbia voluto rispondere…
f) La forma indiretta viene presto soppiantata
da quella diretta. Dal punto di vista grafico si alterna, per le risposte,
l’uso del trattino a quello del virgolettato
g) Le domande sono brevi e lasciano il più
delle volte ampio spazio alle risposte
h) La concessione dell’intervista è
vissuta come un fatto straordinario dai giornalisti, sentite come si conclude
quella con Marconi: “Ed il nostro colloqui, di cui serberò indimenticabile
ricordo, ebbe fine”.
Inoltre
dobbiamo considerare il periodo di inizio secolo della direzione Bergamini: l’intervista
è ancora guardata con sospetto, e non è ancora un genere sdoganato. Vittime di
pubblicazioni di conversazioni informali o di tranelli, alcuni intervistati
hanno paura di parlare con i giornalisti temendo di essere complici di chissà
quale misfatto.
Questo accade
ad esempio nell’intervista al Conte Voinovich:
Dunque volete proprio intervistarmi?
Se vi piace meglio faremo un po’ di conversazione.
Il che è quanto dire intervistarmi…
Come volete. E comincerò col domandarvi quale scopo ha la sua missione
in Vaticano. È una missione politica?[23]
La persona più
importante intervistata dal Giornale d’Italia è la Regina Natalia, il 5
Maggio 1902: nel colloquio con il giornalista Giulio Marchetti Ferrante si
parla della sua conversione al cattolicesimo, delle sue origini serbe e del suo
rapporto con l’Italia.
Una citazione
particolare la meritano anche la già citata conversazione con Guglielmo
Marconi, e un affascinante incontro con il brigante Musolino. Il 7 Gennaio 1902
il bandito veniva tradotto da Catanzaro al carcere di Lucca, e viene avvicinato
da un temerario cronista.
In queste
righe il giornalista da del tu all’interlocutore, e non esita a fargli domande
sui suoi misfatti: il risultato è un dialogo molto interessante, a tratti
perfino ironico.
Musolino voleva i suoi abiti da borghese. Ma non stai bene con
quelli?
Sono abiti da galeotto e io non sono un delinquente
E’ vero che sei stato da una tua sorella ad un matrimonio…
Si è vero
Ma come hai potuto?
Mi sono vestito da donna. Due volte mi sono tagliati i baffi, e la
mia faccia si presta a travisarmi: io anzi quando ero più piccolo avevo le
sembianze di una donna
…quando ammazzasti quel padre con il bambino, e quel povero
carabiniere?
Quando ho ammazzato quel padre il bambino era lontano… Quanto al poliziotto,
vi eravate tutti schierati contro di me, condannato innocente nel fiore degli
anni, nel fiore della giovinezza…[24]
Dal
primo al secondo dopoguerra
L’intervista
si diffonde progressivamente a partire dall’esperienza di Bergamini, anche se
le guerre e l’esperienza del fascismo ne rallentano l’evoluzione.
Negli anni del
primo conflitto Mondiale (1915-1918) la stampa italiana è vittima della censura
e della autocensura: una campagna di informazione volta a nascondere
informazioni militari e le dimensioni delle sconfitte sul campo di battaglia
limita molto la libertà dei giornalisti. Nel ventennio fascista, ogni mezzo di
comunicazione è poi ridotto a strumento di propaganda del regime di Mussolini.
Anche l’invenzione della radio, diffusa a partire dagli anni ‘30, che pure
avrebbe potuto aprire la strada ad un nuovo genere di interviste, è imbrigliata
dalle logiche di potere e dai dettami del Duce attraverso il Minculpop
(Ministero della Cultura Popolare). Un’intervista via radio permette di sentire
la viva voce dell’interlocutore: già dal tono di voce, dall’inflessione e dalle
pause si può capire più in profondità il personaggio rispetto alle frasi
riportate dal giornalista sulla carta.
Dopo la
tragica disfatta della seconda Guerra Mondiale, la stampa si reinventa e si
rinnova nella forma e nei contenuti.
La nascita dei
settimanali italiani risponde proprio
all’idea di un giornalismo fondato sull’attualità resa ancor più
presente dall’immediatezza fotografica. Ne sono un fulgido esempio testate come
Omnibus, Oggi, Panorama, L’Espresso, la Domenica
del Corriere, Il Mondo, Epoca: pur con uno stile e un piglio
diverso rappresentano il nuovo giornalismo popolare. L’Europeo, fondato
da Arrigo Benedetti nel 1945, si differenzia per aver introdotto nel giornalismo
il concetto che “ogni avvenimento possiede una natura di cronaca”. È una
rivoluzione, perché con l’Europeo di Benedetti diventarono personaggi da
raccontare dal vivo anche gli uomini politici, gli scrittori, gli uomini
d’affari. Sarà proprio questo settimanale a reintrodurre e rivoluzionare l’uso
dell’intervista nei settimanali italiani, con la brillante direzione di Tommaso
Giglio qualche anno più tardi (1969-1976).
Una
svolta storica: l’intervista al Papa
Per molti anni
quello dell’intervista è stato un genere snobbato e sottovalutato. La svolta
avvenne Domenica 3 Ottobre 1965.
Quel giorno la
prima pagina del Corriere della Sera è interamente occupata da un
colloquio con il personaggio più importante mai avvicinato da un cronista
italiano: Papa Paolo VI.
Il privilegio
e la fortuna di questo incontro toccano ad Alberto Cavallari, storico inviato
del Corriere del quale divenne anche direttore negli anni ottanta (dal
1981 al 1984). Cavallari avvicina il Santo padre alla vigilia della sua partenza per New York, mentre proseguiva a
Roma il Concilio Vaticano II. E’ un evento tale da occupare l’intera prima
pagina e da meritare un titolo di nove colonne a caratteri cubitali: “Colloquio
con Papa Paolo VI”.
All’interno
dell’ampia intervista leggiamo che si è trattato di “un colloquio che nasce
dall’occasione semplice e non dall’ufficialità”. In realtà, nonostante le
sottigliezze terminologiche e l’umiltà
dell’autore, possiamo parlare di un intervista a tutti gli effetti: scritta in
forma indiretta, quindi non tramite una serie di domande e risposte
graficamente riconoscibili. Ma è pur sempre un’intervista al Papa, sui temi più
caldi del pontificato e della Chiesa.
“Papa Paolo VI mi ha parlato del Vaticano d’oggi, della Chiesa, del
Concilio, del suo Viaggio a Nuova York alle Nazioni Unite, dell’Italia, dei
rapporti Chiesa-Stato. Mi ha ricevuto nella sua biblioteca privata, di sera,
conversando poi lentamente e con grande franchezza. I papi non concedono, com’è
noto, interviste: non ne concedono da
duemila anni; ma un colloquio com’è stato questo so di poterlo riferire”.[25]
Questo
l’inizio del lungo articolo che ripercorre le risposte le opinioni del Pontefice. Lo stesso
Cavallari (il quale ha la fortuna di un faccia a faccia “senza segretari”)
precisa la forma che vuole dare all’articolo:
“Voglio solo tenere un diario, scritto proprio col tono di un diario,
immediato, semplice, incurante di architetture, e non d’un’inchiesta”[26].
E’una tipologia di scrittura dovuta probabilmente alla complessità delle
risposte e dei temi trattati, che sarebbe stato difficile e fatalmente
impreciso rielaborare in forma diretta. L’autore preferisce lasciare tutto lo
spazio necessario ai concetti espressi dal Pontefice e alle sue opinioni.
Correttamente,
Cavallari sottolinea anche che il confronto è durato “quasi un’ora, e lo
riferisco con le stesse cadenze del parlato”[27].
Precisa inoltre che ciò che leggiamo è la ricostruzione delle parole di Papa
Montini fissata nella sua memoria parola per parola: il giornalista ascolta
infatti “senza scrivere (non si può scrivere davanti al Papa)”.[28]
Graficamente,
le parole di Paolo VI sono riportate in corsivo, e vengono intervallate dalle
considerazioni dell’intervistatore.
Ecco due
esempi della forma indiretta dell’intervista a cui accennavamo prima:
Paolo VI ha raccolto l’inizio di una domanda sull’Italia e l’ha
portata avanti senza retoriche e frasi di circostanza, fino al terreno spinoso
dei rapporti chiesa-stato. “Spesso ci chiedono una parola sull’Italia, ma è
così difficile dirla. Se la diciamo, osservano che il Papa interviene nelle
questioni italiane…”
(…)
Sul viaggio all’Onu, Paolo VI
mi ha detto: “Ci hanno chiesto di andare per celebrare il ventesimo anno
dell’Onu…”.[29]
L’intervista ebbe una vasta eco sui giornali nazionali e
internazionali nei giorni seguenti. Il giorno successivo, nella prima pagina
del Corriere del 4 Ottobre, leggiamo:
“Oggi i giornali, le stazioni radiotelevisive, le agenzie, registrano
nelle loro headlines il colloquio accordato dal Pontefice all’inviato del Corriere
della Sera Alberto Cavallari. Sottolineano fra l’altro come Paolo VI abbia
obbedito a un impulso di sincerità parlando della fatica e delle difficoltà che
lo attendono in questo viaggio. Ma nonostante la sua riluttanza, si legge nei
commenti, il Papa si rende conto dell’importanza storica di questo passo nel
processo di rinnovamento della Chiesa”[30].
Da queste
righe si capisce ulteriormente l’importanza di questa intervista, e lo scalpore
che suscitò. Diciamo subito che un colloquio a tu per tu di questo genere come
quello fra Cavallari e Montini, con l’intera prima pagina di un quotidiano
occupata dall’intervista, rimane un fatto isolato.
Nel 1994 anche
Vittorio Messori[31] ebbe la fortuna di
intervistare il Santo Padre, Karol Woityla, seppure per iscritto e non mediante
un incontro personale. Il risultato è stato uno dei più grandi successi
editoriali di tutti i tempi, Varcare la soglia della speranza, edito da
Mondadori. La storia di questa intervista è intricata e complessa, come del
resto doveva esserlo avvicinare una personalità come il Santo Padre.
Inizialmente,
la RAI aveva ottenuto l’assenso del Papa per la concessione di una intervista
televisiva in occasione del quindicesimo anniversario del pontificato che
ricorreva nel 1993. A Vittorio Messori fu affidato il compito di intervistare
il Papa, a Pupi Avati la regia dello
storico evento trasmesso dalla Tv pubblica. Messori incontrò anche il Papa a
Castel Gandolfo e gli consegnò un primo schema contenente venti domande.
Purtroppo il carico di lavoro del Papa e
la sua agenda fitta di appuntamenti non gli permisero di mantenere la
promessa di quella intervista. Qualche tempo dopo, però, a Messori giunse una
sorprendente telefonata:
In linea, il direttore della sala Stampa della santa Sede Joachìn Navarro-Valls
che era stato tra i più convinti sostenitori dell’opportunità dell’intervista.
Navarro era latore di un messaggio che (mi assicurava) aveva colto di sorpresa
lui per primo. Il Papa, cioè, mi mandava a dire: “Anche se non c’è stato modo
di risponderle di persona, ho tenuto sul tavolo le sue domande. Mi hanno
interessato, credo che occorra non lasciarle cadere. Così ci ho riflettuto e,
da qualche tempo, nei pochi momenti che i miei impegni mi concedono, mi sono
messo a rispondere per iscritto. Lei mi ha posto dei quesiti, dunque ha in
qualche modo diritto ad avere delle risposte… Ci sto lavorando. Gliele farò
avere. Poi, faccia come crede più opportuno”.[32]
Da questo
episodio nasce questo libro-intervista che ha venduto milioni di copie in tutto
il mondo. Messori ha aggiunto alle prime domande altri quindici quesiti là dove
il testo lo richiedeva, e si è limitato ad alcuni ritocchi di editing. Per il
resto il libro riporta esattamente tutte le considerazioni di Woityla.
Lo stesso
autore ribadisce nell’introduzione al libro: “La voce che qui risuona è tutta e
solo del Successore di Pietro. Così che sembra opportuno parlare non tanto di un’intervista, quanto di
un libro scritto dal Papa, seppure stimolato da una serie di domande”.[33]
Un merito
riconosciuto unanimemente a Giovanni Paolo II è quello di aver saputo
sfruttare i mezzi di comunicazione di
massa. La sua abilità comunicativa, la sua gestualità diretta e
anticonvenzionale, il rapporto profondo con la folla dei fedeli, il ripetersi
dei suoi viaggi hanno trasformato il suo pontificato in un susseguirsi di veri e propri eventi
mediatici. A questo contribuì anche la sua disponibilità nei confronti dei
giornalisti. Ai quali, durante i viaggi aerei del Santo Padre, veniva concessa da Woityla l’opportunità di porgli
delle domande. Le potremmo definire “brevi interviste di gruppo”, dove il Papa
permetteva ai giornali di dare rilevanza al suo viaggio sfruttando le
dichiarazioni gentilmente offerte.
Il nuovo Papa
Benedetto XVI, durante il suo primo viaggio (a Colonia, per la Giornata
Mondiale della Gioventù, dal 16 al 21 Agosto 2005) ha abolito questo momento di
incontro con i giornalisti. Però pochi giorni prima della manifestazione di
Colonia ha scelto Radio Vaticana per la sua prima intervista da Pontefice a
quattro mesi dalla sua elezione. Segno questo, che anche una personalità più
introversa e intellettuale, meno avvezza al media-system del suo predecessore,
tiene comunque in considerazione il rapporto con i giornalisti. Potersi sentire
a suo agio ed essere al riparo da possibili tranelli: questi i motivi
dell’intervista concessa proprio alla stazione radiofonica del Vaticano, con
domande aperte su temi generali come i giovani o l’ecumenismo, e un ampio
spazio per risposte complete. La scena qui viene lasciata interamente al
Pontefice, mentre l’intervistatore decide solo la direzione e gli ambiti delle
riflessioni. Inoltre non ribatte mai alle risposte di Benedetto XVI.
Ecco un breve
passo di questo colloquio, riportato nei giorni seguenti da tutti i giornali
italiani:
Santità, Lei ha detto, e questa Sua affermazione è stata ripresa: “La
Chiesa è giovane”. In che senso?
Intanto, in senso strettamente biologico, perché ad essa appartengono
molti giovani; ma essa è anche giovane perché la sua fede sgorga dalla sorgente
di Dio, quindi proprio dalla fonte dalla quale viene tutto ciò che è nuovo e
rinnovatore. Non si tratta quindi di una minestra rifatta, scaldata e
riscaldata, che ci viene riproposta da duemila anni. Perché Dio stesso è
l’origine della giovinezza e della vita. E se la fede è un dono che viene da
Dio – è l’acqua fresca che sempre ci viene donata – quella che poi ci consente
di vivere e che poi noi possiamo immettere come forza vivificatrice nelle
strade del mondo.
Quale posto riveste l’ecumenismo a Colonia?
Il dialogo ecumenico come tale non è all’ordine del giorno a Colonia,
perché Colonia è sostanzialmente un incontro tra giovani cattolici di tutto il
mondo e anche con quei giovani che non sono cattolici ma che vogliono sapere se
da noi possono trovare una risposta alle loro domande. (…)
Santità, purtroppo proprio nei Paesi ricchi del Nord, si manifesta un
allontanamento dalla chiesa e dalla fede in generale, ma soprattutto da parte
dei giovani. Come ci si può opporre a questa tendenza?
Ovviamente, stiamo tutti cercando di presentare il vangelo ai giovani
in maniera che essi comprendano: “Ecco il messaggio che stavamo aspettando!”. È
vero anche che nella nostra società occidentale moderna ci sono molte zavorre
che ci allontanano dal cristianesimo: la fede appare molto lontana, anche Dio
appare molto lontano, la vita invece appare piena di possibilità e di compiti,
tendenzialmente il desiderio dei giovani è di vivere la propria vita al massimo
delle sue possibilità. (…) Credo però che tra i giovani si stia anche
diffondendo la sensazione che tutti questi divertimenti offerti non possono
essere “il tutto”. Da qualche parte ci deve essere il “di più”. Occorre
riconoscere questa richiesta e non ignorarla, non scansare il cristianesimo
come qualcosa di ormai concluso e sperimentato, e contribuire affinché esso
possa essere riconosciuto come una possibilità sempre fresca perché originata
da Dio[34].
L’Europeo
di Tommaso Giglio
Negli anni
’50, più precisamente il 3 Gennaio del 1954, un nuovo attore compare sulla
scena dei media italiani: la televisione. La forza dell’immagine cambia il
panorama dell’informazione: i telegiornali, le inchieste come Viaggio in
Italia (del regista e scrittore Mario Soldati) e le tribune politiche danno
spazio al genere dell’intervista televisiva. Con i suoi grandi pregi come
l’immediatezza, la comunicazione non verbale e l’assenza del taglia e cuci
giornalistico, la diretta inchioda l’interlocutore e lo costringe ad affrontare
anche domande scomode. Ben presto emerge però anche il suo grande difetto: il
tempo limitato a disposizione non permette un livello di approfondimento
paragonabile alle interviste scritte.
Con l’avvento
della televisione sul mercato italiano, il mondo della carta stampata perde il
monopolio dell’informazione che durava da più di un secolo. Prima cominciano a
patirne i quotidiani, poi tocca ai periodici soffrire l’invadenza del piccolo
schermo. Il rapporto tra Tv e telespettatore diventa strettissimo, e sul finire
degli anni Sessanta le vendite dei settimanali e dei quotidiani continuano a
scendere.
A cavallo tra
gli anni ‘60 e i ‘70, proprio la tecnica dell’intervista fu uno degli antidoti
scelti dall’Europeo per arginare la crisi. La figura di Tommaso
Giglio è determinante nella rinascita
del settimanale fondato da Arrigo Benedetti nel ’45.
L’editore
Angelo Rizzoli gli affida la direzione nel 1969. Giglio, nato a Pontecorvo nel
1923, sfrutta al massimo il piglio aggressivo e polemico dei suoi reporter e
introduce in ogni numero del giornale una o più interviste, come faceva in
America il settimanale Usa Today.
L’intuizione
di adottare largamente il genere dell’intervista servì per differenziarsi dai
concorrenti Panorama e L’Espresso,
i quali dominavano il mercato dei
settimanali seguendo la linea del newsmagazine sul modello dei settimanali
statunitensi Life e Newsweek. I due leader italiani perseguivano
la strada dell’impersonalità, e seguirli su quel terreno avrebbe significato
per l’europeo una sicura disfatta sul piano delle vendite.
Enzo Magrì,
descrive in un articolo apparso sulla rivista Tabloid nel 2004 il segreto di quelle scelte:
“Per surrogare l’immediatezza del mezzo televisivo, Giglio riduce al
minimo le articolesse (i pezzi in terza persona che ubbidiscono al principio
del “ora te lo racconto io”) e dà più spazio alle interviste. Il botta e
risposta del quale l’Europeo fa ragguardevole uso, ha lo scopo di annodare,
attraverso lo strumento cartaceo, un filo diretto tra il protagonista della
vicenda e il lettore. Compito del giornalista, che propone domande provocatorie
e raccoglie le risposte nel registratore, è quello di interpretare la curiosità
di chi legge e d’assumere il ruolo dell’antagonista rifuggendo da atteggiamenti
compiacenti, da compare dell’intervistato, com’era di moda all’epoca”.[35]
Sfogliando l’Europeo
di quegli anni si leggono colloqui con protagonisti di fatti di cronaca,
politici, cantanti, attori. Tutti accomunati dal taglio voluto da Giglio:
immediatezza, vivacità, senza annoiare il lettore ma fornendogli ogni settimana
degli incontri interessanti, originali, ed esclusivi.
Magrì racconta
così la direttive di Giglio: “Lo schema classico delle interviste dell’Europeo
prevedeva un lead con tre domande in sequenza, brevi, seguite da tre risposte
brevi ed esaurienti della stessa lunghezza: due righe, al massimo tre. In
questo modo il lead prendeva per la manica il lettore e lo trascinava dietro
senza dargli motivo di distrarsi. Seguiva quindi la presentazione del
personaggio e i motivi per i quali era intervistato. Quindi si cercava un
aggancio qualsiasi per tornare al botta e risposta”.
Ad esempio
ecco le prime tre domande di Enzo Magrì a Guido Calvi, avvocato difensore di
Pietro Valpreda, accusato per la strage di Piazza Fontana:
Avvocato Calvi, chi è, psicologicamente, Pietro Valpreda?
Non è certamente un mostro. E’un uomo.
Si, certamente, un uomo. Ma che tipo d’uomo?
È il tipo d’uomo che sembra fabbricato apposta perché, nei momenti
necessari, gli si possa attribuire una strage.
Non capisco, avvocato Calvi.
Valpreda corrispondeva perfettamente al tipo che nel 1969 qualcuno
andava cercando per farne il capro espiatorio di un fatto mostruoso. Di una
strage, appunto.[36]
Per evitare
l’uso di tecnicismi eccessivi e di un
linguaggio lontano dal lettore comune, che avrebbe fatto perdere di interesse
il colloquio, Tommaso Giglio spesso non rispettava le competenze nell’assegnare
le interviste.
“Mandava a
fare la nautica uno che di nautica non sapeva nulla. Il giornalista così si
doveva documentare, e poteva interpretare anche il desiderio del lettore che di
nautica non era esperto”- spiega Magrì - “Quindi cercherà di ricavare risposte
chiare e semplici indagando la
personalità di chi aveva di fronte”[37].
Nella
agguerrita pattuglia di cronisti che nei primi anni 70 lavorarono all’Europeo
di Giglio spicca una donna, Oriana Fallaci. Un inviata dal talento
giornalistico fuori dal comune che affascina i lettori con uno stile
aggressivo. Le sue corrispondenze dal Vietnam
e dagli altri inferni di guerra hanno fatto la storia del giornalismo,
come d’altronde le sue interviste per il settimanale di Giglio. I suoi colloqui con i potenti della terra,
infatti, sono stati raccolti dall’autrice nel volume Intervista con la
Storia, edito da Rizzoli nel 1974.
Si tratta di 18 interviste con i personaggi più influenti del tempo, dal
segretario di stato americano Henry Kissinger a Yasser Arafat; dal primo
ministro israelita Golda Meir allo scià di Persia Reza Pahlavi.
Attraverso
queste interviste, che grazie al tono
perentorio e il temperamento polemico della Fallaci diventano talvolta veri e
propri scontri, il giornalista si fa testimone e storico del presente.
Raccoglie materiali e testimonianze che servono a interpretare le
responsabilità di chi esercita il potere. Nella introduzione al suo libro, l’autrice
racconta così il suo stato d’animo di fronte a questi colloqui:
“Su ogni esperienza professionale lascio brandelli d’anima, a quel
che ascolto e vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente (…)
Mi recai oppressa da mille rabbie, mille interrogativi che prima di investire
loro investivano me stessa e con la speranza di comprendere in che modo, stando
al potere o avversandolo, essi determinavano il nostro destino”[38].
Dal punto di
vista della tecnica giornalistica, le interviste della Fallaci si
differenziavano da quelle degli altri suoi colleghi cronisti: lei si collocava
infatti tra il lettore e il personaggio, diventando spesso il protagonista dei
colloqui. Non un mediatore ma un personaggio che attira le luci della ribalta.
A dimostrazione che non era solo la Tv a dare notorietà ai giornalisti.
Le scelte di
Giglio, le interviste settimanali e i colloqui della Fallaci determinarono
picchi di vendita molto alti: nei primi
anni ‘70 l’Europeo vendeva stabilmente tra le centottantamile e le
duecentomila copie. Un successo determinante per l’evoluzione del genere giornalistico
dell’intervista. Da qualche anno, l’Europeo è tornato nelle edicole
riproponendo un’antologia dei pezzi storici della vecchia rivista: il secondo
numero uscito nel Marzo del 2004,
intitolato “L’Italia degli anni settanta” contiene molti articoli
dell’era-Giglio. Anche a trent’anni di distanza ha avuto degli ottimi risultati
di vendita.
La
moltiplicazione delle forme e delle tipologie
Negli anni ‘80
la moltiplicazione dell’offerta televisiva ha definitivamente consacrato il
piccolo schermo come principale fonte di
informazione degli italiani. L’intervista televisiva ha potuto mostrare la sua
faccia migliore nei programmi di inchiesta come quelli di Sergio Zavoli.[39] Tv7
e la Notte della Repubblica (1989) sono forse gli esempi migliori di
come condurre un confronto televisivo in profondità, senza limitarsi ad un
contatto superficiale. Qui l’intervista
è componente essenziale dell’impianto narrativo di una ricostruzione il più
vicina possibile alla verità.
Anche i primi
colloqui serali del conduttore televisivo Maurizio Costanzo si possono inserire
nel genere delle intervista televisiva. Prima alla Rai con Bontà Loro
(1976) e Acquario (1977), poi alla tv privata Fininvest con il Maurizio
Costanzo Show (1982), Costanzo invita ogni sera un personaggio del mondo
politico, culturale o dello spettacolo, per conversare a ruota libera in un
faccia a faccia che costituiva l’ossatura del programma. La strada intrapresa
poi da Costanzo è quella del Talk-show
intorno ad un tema di attualità: il numero degli ospiti cresce e al conduttore
resta il ruolo di moderatore e regolatore dei turni di battuta. Le opinioni
degli ospiti spesso si sovrappongono e sono poste tutte sullo stesso piano:
tutt’altra cosa rispetto alla profondità di un’intervista personale.
Anche nei
telegiornali l’intervista ha progressivamente continuato a diffondersi: ogni
giorno vengono interpellati politici, protagonisti di fatti di cronaca, attori,
calciatori. Tutti questi interventi sono limitati però dal fattore tempo: in
un’edizione di mezz’ora non ci stanno più di dieci o quindici servizi. Per
forza di cose le interviste non durano mai più di uno o due minuti: il più
delle volte ci si limita solo a poche battute di corsa, come quelle dei
politici accerchiati da una folla di cronisti all’uscita di un’aula
parlamentare.
Il panorama odierno: trasformazioni e
degenerazioni
Per descrivere
il panorama attuale riportiamo le considerazioni di Giovanni Santambrogio, giornalista
del Sole-24Ore e docente di Teoria e tecniche del linguaggio
giornalistico all’Università Cattolica di Milano:
Affermandosi come genere, negli anni ’90, l’intervista ha subito
trasformazioni profonde nella tecnica comunicativa. Ha perso gran parte della
freschezza e della pacatezza che aveva un tempo per trasformarsi ora in un
testo concordato, ora in un confronto serrato tra giornalista e interlocutore.
Se il testo manca di aggressività non viene pubblicato o viene percepito come
una “pastetta”. Si è imposto un modello che propone il giornalista come giudice
e l’intervistato come un imputato che deve scagionarsi. Le domande si
trasformano in pericolosi trabocchetti. Il testo finale, quello che viene
stampato, diventa il risultato di una selezione di frasi abilmente montate
senza seguire l’ordine dell’incontro. La maggior parte delle interviste che
oggi si leggono non rispondono più alle preoccupazioni e al metodo di lavoro
vissuti dalla Fallaci.
Lietta Tornabuoni commenta così il cambiamento: “La natura non
spontanea e non esclusivamente informativa, non dialettica, ma coatta,
concordata e patteggiata che l’intervista ha assunto nel giornalismo italiano
non riguarda soltanto personaggi della politica, ma anche scrittori, registi,
attori. In campo non politico, l’intervista diventa spesso una forma di
pubblicità non pagata. Così un genere interessante ha perduto oggi parte della
sua credibilità. Le eccezioni non mancano, e soprattutto nelle pagine culturali
o di inchiesta, s’incontrano ancora esempi di buone e godibili interviste”.[40]
Anche Furio
Colombo non dà un quadro positivo del genere attuale dell’intervista:
“I leader politici italiani di solito discutono una rosa di nomi
prima di accettare il rischio di una intervista. E di solito ottengono esattamente
ciò che anche il giornalista aveva predisposto e atteso: lo scatto favorevole
delle condizioni di affinità”.[41]
CAPITOLO 2
TIPOLOGIE E CLASSIFICAZIONI DELL’INTERVISTA
2.1 Perché
si leggono, si chiedono e si rilasciano le interviste
In una pagina
di giornale, i titoli colpiscono per primo l’occhio del lettore. Subito dopo,
l’attenzione si sofferma sugli occhielli, i sommari e i catenacci. Poi,
istintivamente, si passa all’eventuale intervista. Quella alternanza di caratteri
differenti, facilmente identificabili all’interno di un quotidiano, cattura
sempre. Quando ci si trova di fronte ad
un’intervista, anche se sgradita o noiosa, prima di voltare pagina passa sempre un attimo in più rispetto ad un
qualunque articolo di cronaca. Perché la composizione grafica della
conversazione facilita la lettura: il lettore capisce subito quali sono le
domande (in grassetto o corsivo) e quali le risposte.
Le interviste
si fanno anche perché vengono sempre lette. Magari solo per qualche riga o per
una sola domanda, però risulta difficile saltarle completamente: per il modo in
cui sono impaginate incuriosiscono.
Inoltre,
un’intervista si può leggere dall’inizio, dalla fine, dal centro: si può
piluccare a piccoli pezzi, senza avere l’obbligo di scorrerla nella sua
interezza per comprenderla. Ad esempio, ci può interessare la risposta di un
attore sulla sua vita privata, senza per questo dover leggere per forza il suo
pensiero sul suo ultimo film. Si può leggere saltando da un quesito all’altro,
soprassedendo le parti più noiose e facendo attenzione a quelle che più ci
interessano. Ogni domanda è legata alla risposta precedente ma costituisce
anche un tassello a sè stante; l’introduzione può facilitare una comprensione
maggiore ma non è mai determinante. Se voglio capire un commento o un pezzo di
cronaca devo leggerlo tutto, perché c’è un inizio, una parte centrale e una
conclusione; l’intervista invece per come è strutturata suggerisce una lettura
più rilassata.
Più
precisamente, l’intervista “esercita un fascino particolare agli occhi del
lettore perché lo mette a tu per tu con persone che, nella maggioranza dei
casi, molto difficilmente avrebbe la possibilità di conoscere”[42].
Personaggi di prestigio, vip, uomini potenti, individui di successo,
protagonisti o testimoni di un fatto di cronaca: tutti questi uomini
solleticano la curiosità dei lettori che, attraverso la mediazione del
giornalista, entrano in contatto con loro o quantomeno si informano sulle loro
opinioni.
La giornalista
Lietta Tornabuoni ha sintetizzato così il motivo per cui è nata e si è diffusa
questa tecnica:
“Si pongono domande a chi sa qualcosa più degli altri, a chi pensa
qualcosa di nuovo e di diverso, a chi è stato testimone di eventi cui gli altri
non erano presenti: attraverso le risposte, anche la comunità dei lettori viene
così informata. Si pongono domande a chi possiede una competenza, un sapere
scientifico, tecnico o storico, ma non possiede il linguaggio della
comunicazione: attraverso le risposte, e la mediazione del giornalista che le
traduce in linguaggio comune, le conoscenza dell’intervistato diventano
accessibili al pubblico, si pongono domande a chi prende le decisioni influenti
sulla vita collettiva: attraverso le risposte, la gente viene informata di
quali siano le tendenze, i programmi, le prospettive del futuro anche proprio.
Si pongono domande agli autori di un’opera d’arte: attraverso le risposte, il
pubblico viene a conoscere quali fossero le intenzioni, le ispirazioni, le
motivazioni dell’autore, ed è magari aiutato a capirne meglio il romanzo, il
film, il quadro, la canzone o la sinfonia, la messinscena teatrale. Si pongono
domande a chi ha vissuto un’esperienza non comune; attraverso le risposte, una
parte di quell’esperienza diventa collettiva”.[43]
A differenza
di qualsiasi altro pezzo, un’intervista si legge sempre perché – come ha
scritto Stefano Lorenzetto – “si ha la sensazione che il racconto del
protagonista sovrasterà l’opinione dell’autore”[44]. È
il momento in cui il pubblico entra a contatto direttamente con la fonte
dell’informazione e, si presuppone, con la verità dei fatti.
Le scelte dei
giornalisti devono tenere presente questa vicinanza tra il lettore e il
personaggio: il ruolo di mediatore è assai delicato. Enzo Magrì ricorda che
all’Europeo, negli anni ’70, una delle norme per gli intervistatori era: “Far
dire all’intervistato quello che avrebbe detto se fosse stato capace di dirlo.
Questo significa che bisognava indurre l’intervistato ad esprimere tutto il suo
pensiero e se non ce la faceva era necessario aiutarlo nel senso di scavare con
domande acconce nella sua intelligenza per ricavarne tutto il suo pensiero”[45].
Quando si
intervista una persona, il giornalista deve sforzarsi di rendere chiare le sue
parole comprensibili per il lettore, anche a costo di scavare più in profondità
o di chiedere all’interlocutore di ripetere il suo pensiero più volte.
Questo
intervento tecnico del giornalista, ancorché inevitabile, è a fondamento del
dibattito sull’essenza di questa mediazione: è proprio vero che l’intervista è
il momento della verità, che ci presenta un personaggio così com’è? Purtroppo,
o per fortuna, no. Proprio perché l’interlocutore è sottoposto alla mediazione
più o meno deformante del giornalista.
In televisione
il ruolo del giornalista è meno evidente, mentre la rielaborazione a posteriori
nell’intervista scritta è fondamentale. Quest’ultima è anche uno strumento
ambiguo e contraddittorio: non bisogna dimenticare che ogni parola
dell’intervista scritta è il prodotto di una tecnica attraverso la quale una
conversazione è stata trasformata in un articolo. In questi casi il giornalista
dovrebbe eclissarsi, per lasciar posto al pensiero dell’interlocutore; in
realtà è lui non solo a fare le domande ma anche a selezionare le risposte. Dovrebbe
essere un mediatore, ma diventa necessariamente un protagonista: deve
restringere le domande e le risposte entro uno spazio, tagliare i tempi morti,
dare al dialogo una logica, se necessario modificare l’ordine delle domande.
In Tv il
fattore tempo limita la possibilità che si realizzi il proposito di un
“intervista come momento della verità”: in video proliferano le interviste
brevi, prive di obiezioni, dove il personaggio politico intervistato impara a
dire rapidamente e senza contraddittorio quello che vuole, puntando sulla frase
a effetto o sul paradosso.
Per queste
ragioni, può capitare che lo scopo di un’intervista sia quello di farsi
pubblicità o di rilasciare dichiarazioni senza contraddittorio (o quasi).
L’illustre semiologo Umberto Eco le ha definite interviste-manifesto:
“Quando un uomo politico, un grande dell’economia o l’autore di un
libro, rilasciano una lunga intervista al direttore o al più illustre
collaboratore di un giornale, è chiaro che l’intervistato non è stato colto di
sorpresa, e di solito ha sollecitato l’incontro proprio perché voleva far
sapere alcune cose che non poteva dire altrimenti”.[46]
È come se Eco
dicesse: attenzione, non sempre il motivo per cui esce in edicola un’intervista
è il diritto all’informazione dei lettori.
Tornando alla
tecnica giornalistica, un’intervista può avere diversi scopi, sempre connessi
con la sensibilità del giornalista. Quali e quanti sono?
Il giornalista
Claudio sabelli Fioretti, collaboratore del Corriere Magazine per cui ha
realizzato più di duecentocinquanta interviste, risponde così:
“Un’intervista può avere mille scopi. Ma uno dei principali è
riuscire a far dire all’intervistato cose coerenti, reali, divertenti. Bisogna
spesso aiutarlo. Io arrivo anche a indirizzarlo, a suggerire risposte. È una
forma di maieutica. Gli italiani non sanno esprimersi, non studiano oratoria a
scuola, si esprimono in maniera contorta e oscura. Alla fine qualcuno mi dice
anche ‘Non credevo che potessi essere anche così chiaro’. Tremendi sono certi
politici e molti professionisti”[47].
Gianni Minoli
ne individua un altro, parlando di Stefano Lorenzetto, da lui considerato un
modello di intervistatore: “Sono molto rare sono le interviste-incontro, quelle
in cui al giornalista spetta il compito, se possibile più arduo, di raccontare,
attraverso l’esperienza del singolo, l’eccezionalità della quotidianità:
insomma quanto di tragico, paradossale, eroico c’è nell’essere uomini del
proprio tempo”[48].
L’intervista
deve intrattenere, ma anche raccontare delle storie. Deve scavare
nell’interiorità del personaggio, oppure raccogliere le sue opinioni sugli
ultimi eventi. Perché si fanno le interviste? Non c’è un’unica risposta: gli
obiettivi e gli stili delle testate sono molteplici, le tecniche giornalistiche
complesse, le scelte degli intervistatori decisive.
Tutti fattori
che proveremo a decifrare e analizzare, tenendo presente anche
un’interpretazione di Sergio Lepri. Più maliziosa, forse, ma ugualmente valida:
“C’è da domandarsi quali possano essere le ragioni di un’intervista:
per rendere più vivace e leggibile il servizio? Per mostrare al lettore la
facilità con cui il giornalista può parlare con i potenti? Una ragione, in
certi casi, potrebbe essere che l’intervista deresponsabilizza il giornalista
intervistatore: lui fa le domande, l’intervistato risponde, e le sue risposte
(specie se riprese con il registratore), non hanno bisogno di mediazione, cioè
di riassunto e interpretazione, due operazioni che possono essere pericolose”.[49]
2.2 Le
tipologie di intervista scritta: una classificazione
L’intervista
diretta
Sui giornali
la forma di intervista più gettonata è quella diretta, dove le domande e le
risposte si susseguono in una successione evidenziata dalla diversità dei
caratteri grafici. Al termine del colloquio personale, il giornalista rielabora
le dichiarazioni registrate o scritte alternando una domanda e una risposta. In
molti casi c’è una introduzione sul personaggio e l’occasione dell’incontro,
poi comincia la serie di domande. I quesiti del giornalista sono stampati in un
carattere più marcato (grassetto, oppure corsivo), mentre le parole attribuite
all’intervistato sono scritte in carattere normale e vengono poste tra
virgolette. Questa divisione permette di individuare subito, a colpo d’occhio,
quali sono le domande e quali le risposte; inoltre individua subito la
lunghezza dei relativi interventi.
La tecnica
dell’intervista diretta accentua l’immediatezza dell’articolo. È la forma più
chiara perché non c’è mai confusione tra il ruolo di intervistatore e quello di
intervistato.
Non si ha
difficoltà a trovare sui giornali esempi di interviste dirette: ecco uno
stralcio di un’intervista al direttore generale della Rai Flavio Cattaneo,
rilasciata al giornalista Roberto Bagnoli per il Corriere della Sera.
Questo articolo è apparso il giorno seguente la perdita per la Rai di parte dei
diritti televisivi per il prossimo Mondiale di calcio:
Non teme una reazione del pubblico che si ribella al pagamento del
canone? Dell’appassionato che vuol vedere anche il Ghana?
Ma quanti sono? Per poche persone dovremmo chiedere di aumentare il
canone? La rai ha 11mila dipendenti, con relative famiglie, a cui pagare lo
stipendio ogni mese e ha 16 milioni tutti da rispettare. La verità è che non si
è mai contenti. Quando il paese è in deficit bisogna risparmiare, ma quando si
risparmia nessuno lo accetta. Si devono far crescere le aziende senza buttare
via i soldi. Detto questo la Rai, lo ripeto fino alla nausea, avrà tutte le
migliori partite del mondiale, highlights compresi. Un servizio che è costato
più di 90 milioni di euro.
Il ministro Landolfi le ha scritto per avere chiarimenti. E si è
risentito per le sue generiche accuse ai politici che non avrebbero capito.
Cosa risponderà?
Non mi riferivo a lui ma a quei politici che hanno dichiarato che la
rai ha perso i Mondiali. Al ministro che gentilmente mi ha scritto, gentilmente
risponderò.
Resta il fatto che Sky ha fatto un buon colpo…
Non sono d’accordo… Sky ha semplicemente comprato delle rimanenze.
Noi Abbiamo acquistato tutto quello che ci sarà di meglio. Avremo il diritto di
scelta anche sulla base dell’andamento del Mondiale. Mi spiego meglio. Se il
solito Ghana diventa la squadra rivelazione noi l’avremo lo stesso. In pratica
siamo al riparo dalle esclusioni.
Lei ha detto che per avere tutto, la rai avrebbe dovuto chiedere di
ritoccare il canone. Di quanto?
È molto semplice, ogni euro in più vale 15 milioni di euro di
incasso. Quindi tre euro all’anno e per sempre, perché poi l’aumento è chiaro
che la Rai se lo tiene per gli anni a venire.[50]
Più le riposte
sono brevi, maggiore è il ritmo dell’articolo e maggiore il numero di risposte.
In questo modo, risulta più evidente anche il sottile gioco psicologico tra
intervistatore e intervistato. Riportiamo a titolo di esempio un brano
dell’intervista di Roberto Gervaso a Mario Soldati, sul finire degli anni ’70.
Le risposte stringate e le domande a raffica accentuano il ritmo e la
brillantezza dell’intervista:
A chi, in Italia, daresti il Premio nobel?
A Giorgio Bassani.
Perché?
Innanzitutto, perché gli farebbe piacere.
Poi?
Perché se lo merita, visto anche a chi, in passato, l’assegnarono:
Pearl Buck, ad esempio, o Quasimodo, buonanima.
Solo per questo?
No, anche perché, con le sue ideologie democratiche e pacifiste, è
tipo da Nobel.
E a te non lo daresti?
No, per le stesse ragioni capovolte.
E se te lo imponessero?
L’accetterei. Così, finalmente, e magicamente, risolverei i miei
problemi finanziari.
Ne hai molti?
Ho sempre avuto le mani bucate. Come mio padre, che fallì tre volte.[51]
L’intervista
indiretta
Quando un
giornalista inserisce il virgolettato dell’interlocutore senza domande dirette,
siamo in presenza di una intervista indiretta. Questa tecnica è caratterizzata
dall’assenza dei punti di domanda classici, tipici del “botta e risposta”, e
lascia invece più spazio alle considerazioni del giornalista. La rielaborazione
a posteriori è più incisiva, perché non si tratta di pianificare una serie di
domande e di risposte, ma di integrare le parole dell’interlocutore con proprie
riflessioni o dati utili alla comprensione del lettore.
Alberto
Papuzzi spiega così la differenza tra intervista diretta e indiretta:
“La forma
classica dell’intervista, nella sua stesura finale, è il dialogo diretto, con
le domande dell’intervistatore e le risposte dell’intervistato riportate fra
virgolette. Quando l’argomento dell’intervista lo richiede, perché è molto
complesso o perché necessita di una contestualizzazione, si può passare ad una
forma indiretta, in cui l’intervistato – soprattutto se non è una persona molto
nota al pubblico dei lettori – non risponde a precise domande e contestazioni,
ma interviene o colloquia, sempre fra virgolette, su questioni poste in modo
generale, in un contesto di informazioni provenienti anche da altre fonti”.[52]
Sul Sole-24Ore
del 1° Febbraio 2005 troviamo un’intervista dell’inviato Marco Magrini a
Helsinki con il boscaiolo cinquantasettenne Hannu Hestela. L’articolo vuole
descrivere il corpo forestale
finlandese. Magrini ha incontrato Hestela, e ha scelto per la scrittura
dell’intervista la forma indiretta, più utile a spiegare l’ambiente del Paese
baltico, a enunciare più dati utili al
lettore.
“Ieri ho abbattuto 125 betulle”, racconta mentre annota su un
cartoncino le otto piante – tutte a fusto stretto ma alte fino a 25 metri – che
in dieci minuti ha tirato giù, segato e
ammassato in una catasta che pare una zattera su un oceano di neve. “L’azienda
Stora Enso me le paga un euro l’una” dice. Hannu Hestela ha passato oltre metà
dei suoi 57 anni nei boschi circondato dalla solitudine, eppure non immagina
davanti a sé nulla di diverso. Anzi,a chiedergli cosa ama delle foreste
finlandesi, sembra di sentir parlare un poeta: “Il canto degli uccelli, il
profumo degli alberi, le impronte di animale sulla neve e i colori
dell’autunno”. In Finlandia ci sono circa 22mila Hannu Hestela. Ventiduemila
lavoratori silvestri che fanno girare un’economia capace di fatturare 33
miliardi di euro in legname, carta e macchine forestali. E capace anche di
contribuire al 24% delle esportazioni nazionali, distribuendo ricchezza
all’intero paese (…) Una ricchezza di molti, ma anche una ricchezza di tutti:
secondo la legge, chiunque è libero di passeggiare nei boschi e di raccogliere
funghi e mirtilli e lamponi a volontà. “Questo bosco – spiega Hestela – è del
signor Lehti, e io sono qui perché ha venduto alla Stora Enso un po’ dei suoi
alberi”. Non si pensi a un disboscamento dissennato. In zone limitate, Hestela
recide un albero su sei e la prossima estate si preoccuperà di piantarne di
nuovi. “Il fatto straordinario – spiega Hannu Valtanen, vicepresidente della
federazione delle aziende di settore – è che il bilancio forestale del Paese è
positivo: ogni anno, vengono piantati molti più alberi di quelli che vengono
tagliati”. “In media- conferma Hestela –
io recido 15mila alberi e ne pianto 25mila”.[53]
Magrini doveva
raccontare i forestali di Finlandia e per trasmettere al lettore uno sguardo
più ampio sulla situazione del paese, il giornalista ha usato l’intervista
indiretta. L’uso frequente dei trattini permette più incisi al cronista;
l’ampio spazio tra una domanda e l’altra concede la possibilità di spiegare i
dati essenziali della situazione; l’assenza del vincolo del botta e risposta
permette a Magrini di inserire anche una dichiarazione di una terza persona (il
vicepresidente dell’azienda di settore), in modo da dare al lettore un quadro
più preciso.
Anche le
interviste-ritratto possono essere fatte con questa tecnica senza per questo
risultare depotenziate o meno vive.
Il giornalista
del Corriere della Sera Beppe Severgnini ha trasformato il suo incontro
con la cantante Madonna in un’intervista indiretta uscita nel 1998.
Ci sono donne celebri che di fronte a un intervistatore amano
apparire indifese, come Naomi Campbell; oppure caute, come Deborah Compagnoni;
o amichevolmente battagliere, come Emma Thompson. Quasi tutte, più o meno
inconsapevolmente, cercano complicità (esattamente come fanno gli uomini).
Madonna no. Lei ascolta, sospesa, stende il bel collo, sorride e sibila risposte.
Un cobra languido, addolorato per il destino della prossima vittima, ma non
troppo.
Domando come sta la figlia, Maria Lourdes. Si addolcisce: “Oh, lei,
benissimo. Troppa eccitazione, però, andando di qua e di là. Sono io che dormo
poco”. Chiedo se viaggia senza la bambina. Si adombra: “Mai. Senza di lei non
vado da nessuna parte”. Racconta, mostrando un finto orrore sorridente, che la
piccola nei parchi continua a baciare bambini sconosciuti. Essere mamma –
dicono i bene informati – ha cambiato Madonna.
(…)
Le chiedo se ci sono cose di cui si sia pentita. Sorride di nuovo:
“Sono sempre stata onesta con me stesa”. Insisto: c’è qualcosa che vorrebbe non
aver fatto? Smette di sorridere: “Si cambia, si cresce, si guarda indietro.
Certo, bisogna imparare dai propri errori. Ma avere rimpianti è una perdita di
tempo”. Domando cosa ha intenzione di fare adesso. “Non lo so. Non riesco a
immaginarmi da un ano all’altro. Vivo il momento. Contrariamente a quello che
crede la gente. Io prendo le decisioni in base all’istinto. Ascolto tutti –
anche un perfetto sconosciuto può influenzarmi – ma poi decido io. Molti
confondono questo modo di agire con il fatto che io sia una calcolatrice”.[54]
In questo tipo
di intervista il punto interrogativo è sostituito con domande implicite
(“Domando come sta la figlia”, oppure “Le chiedo se ci sono cose di cui si sia
pentita”). Severgnini ha optato per l’intervista indiretta anche per la
reticenza della cantante americana: questo gli ha permesso di dare ritmo
all’articolo che, se elaborato in forma di botta e risposta, avrebbe avuto poco
pepe, viste le risposte a monosillabi di Madonna. Così, aggiungendo le sue
personali e acute osservazioni sulla cantante, sui suoi gesti e le sue smorfie,
l’autore è riuscito a realizzare un’intervista scorrevole e interessante, anche
se il contenuto delle dichiarazioni – bisogna ammetterlo – non è per niente
eccitante. Insomma, un’intervista indiretta permette al giornalista di avere le
mani più libere.
Questa
tecnica, inoltre, si usa quando non si ha un numero elevato di risposte che
possano tenere in piedi un pezzo da sole. È il caso delle brevi interviste
telefoniche, e delle interviste volanti: in un’intervista indiretta si possono
contestualizzare i fatti, si analizza la situazione da più punti di vista e
ogni tanto si aggiunge una dichiarazione dell’intervistato. Talvolta si
inseriscono nello stesso articolo diverse interviste indirette fatte a più
persone riguardo lo stesso argomento: l’esempio classico è quello del pastone
politico, presente ogni giorno sui quotidiani e nei telegiornali.
L’intervista
indiretta va usata anche nel caso di una conferenza stampa perché non si è
trattato effettivamente di un colloquio faccia a faccia
giornalista-personaggio. I giornalisti presenti alla conferenza appartengono
alle diverse testate della stampa e della televisione, e a turno pongono una o
due domande all’interlocutore: l’uso di una rielaborazione in forma di
intervista diretta sarebbe forviante per il lettore. Innanzitutto non tutte le
domande sono state fatte dal giornalista che scrive il pezzo, e nessuna
risposta è stata data solo a lui. Purtroppo non mancano i casi di conferenze
stampa rielaborate in forma di intervista diretta, soprattutto nell’ambito del
giornalismo sportivo. Non sbaglia chi le
definisce “false interviste”.
2.3 L’intervista
e la notizia: una classificazione
L’intervista
che produce la notizia
Nell’intervista
giornalistica la notizia è l’intervista stessa. In teoria, ogni intervista
dovrebbe contenere delle dichiarazioni di pubblico interesse catalogabili come
“notizia”. Certo, c’è notizia e notizia: quando l’imprenditore Silvio
Berlusconi nel 1994 annuncia ad un quotidiano la sua decisione di entrare in
politica, questo fatto è certamente una notizia di primaria importanza. Se
invece Flavia Vento descrive qual è il suo uomo ideale, qualche dubbio sulla
“notiziabilità” dell’intervista viene.
Leggendo le
interviste scritte dei quotidiani, e ascoltando quelle dei telegiornali, spesso
è difficile trovare una notizia centrale, un fatto importante, una curiosità
che spicchi nella successione di domande e risposte. Molto dipende sempre dal
tipo di testata, dalla complicità, dalla disposizione dell’intervistato a dare
la notizia: però non è difficile leggere un’intervista vuota, arrivare alla
fine e chiedersi: qual era la notizia?
Un esempio
è l’intervista a Francesco Totti della Gazzetta
dello Sport, realizzata il 23 Agosto
2005. Il colloquio con il capitano della Roma è annunciato in prima pagina
dall’apertura roboante “Vi dico tutto”, e viene introdotta dal titolo alle
pagine 2 e 3: “Le mie verità”. In realtà l’intervista è costituita da molte
considerazioni banali, altre scontate, non c’è una vera e propria notizia che
spicchi dal pezzo. Si parla della nuova Roma, delle sue opinioni sulle favorite
per il campionato, del suo rapporto con la moglie Ilary: per carità, tutte cose
che ci stanno in un giornale sportivo. Però non giustificano né sostengono
un’apertura così eclatante. Comprando la Gazzetta e leggendo il titolo “Le mie verità”,
un lettore si aspetta qualche scoop, almeno delle risposte originali, qualcosa
che il giocatore non abbia mai detto a nessuno. Invece non si trova niente di
tutto questo.
Tra intervista
e notizia, dunque, non c’è sempre una correlazione stretta. A volte la notizia
è assente, come nel caso di Totti, e l’intervista risulta vuota. Nel descrivere
il rapporto tra i due elementi (notizia e intervista), distinguiamo altre due
tipologie del genere.
Un primo tipo
di intervista è quella che “produce la notizia”. Si tratta di colloqui dai
quali scaturiscono informazioni inedite o scoop
inaspettati: le dichiarazioni sono una notizia e provocano reazioni
sulla stampa nei giorni seguenti. Qui le risposte, abilmente ottenute dal
cronista oppure fortunosamente conquistate, c’è già una notizia, che in
certi casi diventa anche la notizia del giorno. Durante l’ultima
campagna referendaria sulla procreazione assistita abbiamo avuto due notevoli
esempi.
Romano Prodi,
leader cattolico della coalizione di centro-sinistra, ha dichiarato in
un’intervista al Corriere della Sera che lui sarebbe andato comunque a
votare, nonostante la Chiesa avesse consigliato l’astensione per far fallire i
quattro quesiti proposti dai radicali. Il voto è un dovere istituzionale, mi
ritengo un “cattolico adulto” e perciò andrò a votare: questo in breve il
pensiero espresso da Prodi. Appena pubblicata, l’intervista provoca contrasti
nel mondo politico e nel mondo cattolico. I leader si dividono e irrompe una
polemica durissima che dura sino al giorno dei referendum: tutto per quella
espressione, “cattolico adulto”, detta da Prodi all’interno di un’intervista.
Il dialogo con l’intervistatore ha prodotto una notizia che prima non c’era.
Veniamo al
secondo esempio. Il partito di Gianfranco Fini, Alleanza Nazionale, si era
schierato in maggioranza per l’astensione. In un’intervista a Repubblica
Fini annuncia qualche giorno prima del referendum che andrà a votare “tre sì e un no” ai
quattro quesiti proposti in materia di procreazione assistita e manipolazione
genetica. Subito si scatena lo scontro all’interno di AN: alcuni esponenti si
dimettono, altri si indignano, altri ancora parlano di tradimento. Anche
l’’intervista di Repubblica ha prodotto una notizia.
Paolo Murialdi[55]
individua un’intervista di questa tipologia che ha inciso nella la storia del
giornalismo italiano.
“Cesare Lanza
intervista per il settimanale Il Mondo Indro Montanelli. L’intervista,
che esce il 18 Ottobre 1973 – dal titolo L’anti-Corriere – provoca il
licenziamento di Montanelli dal Corriere della Sera per le affermazioni
polemiche contro il giornale in cui lavora e contro un esponente della
proprietà. Si apre praticamente un ‘caso Montanelli’, che si concluderà il 25
Giugno 1974, con la nascita del Giornale”.[56]
Al tempo di
questa intervista, erano noti i contrasti tra Montanelli e la linea editoriale
dell’allora direttore Piero Ottone. Già si vociferava di una possibile uscita
del giornalista dal Corriere: l’intervista di Cesare Lanza accelerò il
processo e favorì la secessione montanelliana che portò alla fondazione del Giornale.
Quando parli di tradizione infranta al Corriere, puoi chiarire a cosa intendi riferirti?
Chiariamo pure. Quando si dice che il Corriere della Sera è cambiato
per l’intromissione dei nuovi proprietari Agnelli e Moratti si dice una volgare
menzogna. Dei tre proprietari del Corriere, chi fa sentire la sua interferenza
sul giornale è a mio giudizio l’ultima rimasta della vecchia proprietà, Giulia
Maria Crespi, non i due nuovi entrati. Sono convinto che dal giorno in cui il
giornale è andato in passivo, la sua indipendenza è affidata soltanto al tatto,
al senso di misura, alla generosità, allo spirito caritatevole di coloro che lo
hanno rilevato e che, visto che ci rimettono soldi, avrebbero il diritto di strumentalizzarlo
per i propri interessi. Se non lo fanno, noi giornalisti dovremmo sentirci
beneficati, e questa è una posizione che a me non piace.
(….) Come giudichi la trasformazione del giornale, da Alfio Russo
a Spadolini a Ottone?
Russo rinnovò molto, ma rispettando la linea del giornale.
Intendiamoci: non vorrei che si pensasse che io sono per la mummificazione del
giornale, certo i cambiamenti devono essere fatti. Se io dovessi (Dio me ne
guardi!) creare questo nuovo giornale, non rifarei certo il vecchio Corriere di
una volta. Ma del vecchio Corriere prenderei alcune cose, quello stile corriere
della sera, riconoscibile e riconosciuto. In che cosa consisteva questo stile?
È difficile definirlo, ma vorrei dire che in fondo si trattava di un certo distacco
nel modo di affrontare i problemi, un modo antidemagocico di affrontare la
realtà. Questo stile oggi non esiste più - incalza Montanelli con occhi furenti
- Non discuto la linea politica del Corriere attuale (anche perché non capisco
di che linea si tratti: nella stessa pagina c’è tutto e il contrario di tutto).
Non discuto la fattura: il giornale è tecnicamente buono, più svelto di prima.
Quello che discuto è lo stile. Disordinato, tumultuoso, terribilmente
demagogico. Ecco quello che mette me e la vecchia guardia del Corriere della
sera a disagio.[57]
L’intervista
in reazione alla notizia e sue degenerazioni
La seconda
tipologia di intervista è quella “in reazione alla notizia”. Una volta accaduto
un fatto, si cercano le reazioni di personaggi connessi con l’avvenimento
oppure di gente che, per il proprio ruolo, può dare un giudizio autorevole
sulla questione. Oggi si sta diffondendo la moda di interpellare politici,
economisti, attori, sul fatto del giorno: si tratta di brevi interviste, spesso
telefoniche e il più delle volte volanti, con poche domande e poche risposte.
Ciò che conta è la reazione del personaggio all’avvenimento-notizia, il suo
pensiero in merito, la sua opinione. Le riflessioni dell’interlocutore possono
facilitare la costruzione di un giudizio da parte del lettore: soprattutto
quando si parla di argomenti complessi o lontani dalla quotidianità, queste
interviste possono aiutare chi legge a farsi un’idea, a capire qualcosa in più,
a interpretare la realtà da un nuovo
punto di vista. Non è escluso, inoltre,
che le interviste in reazione alla notizia possano a loro volta produrre una
nuova notizia.
Questo tipo di
colloqui non sfuggono alla logica della semplificazione e polarizzazione dello
scontro: su un determinato argomento, i giornali tendono a individuare due
schieramenti, uno opposto all’altro, per facilitare la scelta di campo del
lettore che si schiererà con l’uno o con l’altro fronte. Il risultato è che
spesso nella stessa pagina ci siano due interviste in reazione a una notizia,
con opinioni diametralmente opposte. Se, ad esempio, si analizza un fatto
politico in genere si interpella un esponente di destra e uno di sinistra;
quando si analizza il ruolo delle truppe italiane in Iraq, si intervista un
personaggio favorevole e uno contrario, e così via. Vediamo un esempio
concreto.
Sul Corriere
della Sera, nelle pagine dedicate alla cronaca milanese di Lunedì 1°Agosto
2005, un articolo spiega che Milano è la città più sorvegliata d’Italia
attraverso l’uso delle telecamere. Sotto il pezzo di taglio alto, ci sono due
brevi interviste a due filosofi che aprono un dibattito sul rapporto tra
sicurezza e privacy.
La prima, a
Giulio Giorello, è intitolata: “Giorello: viviamo in un Grande fratello / Si è
perso il diritto alla cittadinanza”; la seconda, a Paolo Del Debbio, ha questo
titolo: “Del Debbio: siamo in emergenza / Tutelare l’incolumità delle nostre
famiglie”.
Presentando una a fianco dell’altra queste due
interviste, il giornale ha dato spazio a due pareri opposti sulla questione lasciando
al lettore la scelta dell’opinione più condivisibile.
Un altro strumento usato per captare le reazioni e i
pensieri della gente su un avvenimento è l’intervista all’uomo della strada.
Dovrebbe permettere ai lettori di identificarsi ancor più con i pareri degli
intervistati. Ne fanno largo uso i telegiornali, ma anche sui quotidiani
cartacei stanno gradualmente aumentando di numero. Rispondono alla logica
dell’“andiamo a vedere cosa ne pensa la gente”: un inviato viene mandato per le
vie di una grande città, solitamente Milano o Roma, e ferma i passanti
chiedendogli un parere su una notizia. Il collage delle opinioni di questi
sconosciuti costituisce il servizio.
Aumentano i prezzi? Comincia la stagione dei saldi? Il caldo tocca dei picchi
record? Per ogni evento si interpella la gente comune, vicina al target dei
lettori o dei telespettatori. Così facendo si deresponsabilizza il giornalista,
il cui compito è mettere il microfono davanti ai passanti e selezionare gli
interventi più interessanti, e si facilita l’identificazione con chi legge o
guarda il servizio.
Mario Furlan
descrive questa categoria di intervista analizzandone anche gli svantaggi:
“L’intervista all’uomo della strada dà un’impressione di spontaneità e
freschezza. A volte si tratta solo di un’impressione, perché si trascrivono
solo le interviste che si vogliono. E così diventa facile sostenere che l’uomo
della strada la vede in un certo modo: è la gente che lo dice…”[58]
Gli effetti di
questa vera e propria moda non sono sempre positivi: i pareri riportati sono
spesso banali e vengono scelti apposta per avvalorare la tesi del giornalista.
Invece di prendersi la responsabilità di commentare il fatto, insomma, l’autore
seleziona pareri che condivide ma che non fa lui in prima persona.
A Enzo Magrì
l’intervista all’uomo della strada proprio non piace: “C’è una tendenza
esagerata del voler sentire a tutti i costi l’uomo della strada. Si ottiene
quasi sempre la fiera dei luoghi comuni: si cerca di identificare il
telespettatore con l’uomo medio, ma il risultato è la banalità, l’ovvietà. Si
vede chiaramente come è il giornalista a mettere in bocca al passante cose
ovvie, proprio perché ormai ci si aspetta il luogo comune e non la notizia da
questi interventi. Ad esempio, dopo la recente morte di Giovanni Paolo II,
c’erano tanti cronisti che chiedevano ai pellegrini: ‘Cosa state provando?’.
È un’orgia delle frasi fatte. Perché a
domanda idiota si ottiene sempre una risposta idiota”.[59]
Chiudiamo con
il giudizio di Sergio Lepri, il quale riassume il discorso fatto finora:
“Un tipo di
interviste da limitare al massimo sono quelle che alcuni telegiornali, allo
scopo di spettacolarizzare un tema della giornata, fanno in strada
interpellando sul tema qualche passante: le risposte sono quasi sempre banali e
insignificanti, perciò inutili; e se non lo sono, specie su temi politici,
significa che l’intervistatore ha scelto i passanti in modo da confortare la
sua tesi. Un campione di tre o quattro persone non è mai un campione serio”.[60]
2.4 L’intervista
nei settori del giornale
L’intervista
politica
E’ noto da
tempo che gli italiani si siano disaffezionati alla politica: il Palazzo è
ormai sempre guardato con sfiducia, sdegno, indifferenza se non odio. In quanto detentori del potere, in Italia i politici
sono raramente considerati persone affidabili. Le interviste politiche sui
giornali soffrono conseguentemente di un deficit di credibilità e interesse che
dipende da questa sfiducia oltre che da
fattori più tecnicamente giornalistici.
Innanzitutto,
se un politico decide o consente di rilasciare un’intervista, risulta difficile
non credere ad un suo personale tornaconto. Il giornalista deve evitare di
ridursi a megafono del potente che vuole veicolare un suo messaggio attraverso
i media. Anche nell’evidente disparità di potere e di autorità che c’è tra
politico e cronista, si deve tentare sempre di stabilire un rapporto leale ma
paritario: che non scivoli nell’intervista in ginocchio, dove l’intervistatore
si prostra davanti all’interlocutore senza porgli alcuna domanda scomoda e lo
asseconda ossequiosamente. Ben sapendo
che il lettore è in grado di riconoscere un’intervista ben fatta da uno spot
politico gratuito. È condivisibile in merito l’opinione di Umberto Eco: “Questo
tipo di intervista è uno strumento politico e come tale è attendibile, non nel
senso che si debba credere a ciò che l’intervistato dice, ma nel senso che si
può ritenere che l’intervistato volesse esattamente dire quelle cose. Spesso il
fatto che volesse dirle, fa già notizia da solo”.
Resta sempre
il dubbio che esista un interesse o un doppio fine dietro alle dichiarazioni:
situazione nella quale il giornalista viene strumentalizzato
Sembra passato
un secolo delle agguerrite interviste di
Oriana Fallaci, che per l’Europeo metteva all’angolo politici del
calibro di Henry Kissinger o Gheddafi.
Piuttosto, a sentire Furio Colombo, al giorno d’oggi
bisogna diffidare dalle interviste con i politici: “Sia Hitler che Mussolini,
sia Stalin che Mao sono stati intervistati da giornalisti famosi o addirittura
da rispettati scrittori. Ma, in quelle interviste, non c’è traccia di verità o
alcun tipo di informazione utile al di là dei desideri del potere. Persino le
interviste della libera stampa americana con i propri presidenti raramente lasciano
il segno. Anche quando non sono un atto di omaggio o assecondamento, anche
quando non si svolgono secondo le regole del potere, hanno ambiti stretti e
possibilità modeste di trasformare la conversazione in rivelazione”.
Già nel 1983,
l’allora direttore del Tg2 Andrea Barbato analizzava il delicato ruolo
dell’intervistatore nel colloquio politico: “L’intervista è un po’ il canale
attraverso il quale passa tutto, la classe politica esprime se stessa, si
duplica, moltiplica la propria immagine, le proprie opinioni, parlando
attraverso queste interviste che fanno sì che i giornali diventino una specie
di registratore, di videocassetta, di verbale stenografico dell’opinione
altrui”[61].
Non è solo
l’essenza del potere a influire sull’intervista politica: anche il linguaggio
tecnico è una sua caratteristica peculiare. Mattarellum, proporzionale, liste
civetta, ribaltone, scorporo sono soltanto alcuni dei termini che fanno parte
del mondo politico, e che spesso riempiono la bocca dei parlamentari. Le
interviste politiche, dunque, presentano conseguentemente termini astrusi,
frasi tortuose, concetti difficili da capire per un cittadino non avvezzo al
politichese. Il giornalista a volte è complice di questa oscurità di linguaggio
perché vuole collocarsi a tutti i costi all’altezza del personaggio, e allora
infarcisce le domande di termini tecnici di difficile comprensione. Sui
quotidiani capita così di trovare pagine intere di discussioni sulla legge
elettorale, mentre in tv c’è ogni giorno il servizio pastone con le brevi
dichiarazioni degli onorevoli, ironicamente definite da Beppe Severgnini le
“testine dondolanti”.
Stefano
Lorenzetto spiega così i lati negativi dell’intervista politica televisiva:
“Prendi Marco Follini, ogni santo giorno lo interpellano sulla situazione
politica, gli mettono il microfono davanti e lui in sette otto secondi fornisce
una dichiarazione perfetta come se fosse uscita dal catechismo di Pio X, usando
non più di 50 parole, magari ci inserisce anche una battutina. Di fatto però
non dice nulla, non dà informazioni: noi vogliamo sapere se vuol fare cadere il
governo oppure no, e ci tocca sentire il suo pensierino del giorno. Il fatto è
che ormai le interviste politiche non interessano più nessuno, il distacco tra
la classe dirigente e la gente comune è tale per cui mi chiedo chi in Italia
oggi legge una intervista a Mastella… Parlano in modo incomprensibile, così
l’intervistatore crede di fare bella figura perché si ritiene all’altezza del
politico, e il politico esce bene dall’articolo. Non ci sono mai domande
scomode in questo tipo di interviste. Il più delle volte si mettono d’accordo
prima, il giornalista chiama e dice: ‘Dai concedimela così vedrai che ti faccio
fare bella figura’. Risultato: niente interesse”[62].
Anche un acuto
intervistatore come Gian Antonio Stella del Corriere della Sera
considera il linguaggio politico un problema nelle interviste: “Provatevi voi a
lasciar andare a ruota libera, per esempio, uno come Ciriaco De Mita. Vi
ritroverete frasi tipo: ‘È una
semplificazione che la politica e i politici siano giudicabili solo sul loro
grado di onestà individuale per cui l’esigenza della trasparenza e della
moralità della politica stia nella collocazione di questa esperienza nel limbo
etereo e non nella concretezza dei processi storici e politici’.
Impubblicabile”.[63]
Sul Corriere
della Sera del 4 Agosto 2005, il vicedirettore Dario Di Vico intervista
Arturo Parisi, presidente della Margherita e braccio destro di Romano Prodi,
sugli intrecci tra politica ed economia dopo la bufera che ha investito
Bankitalia. È un articolo che conferma
le osservazioni fatte poc’anzi: l’argomento è difficile e il linguaggio
tecnico. Ne riportiamo un brano qui sotto:
I vertici dei Ds hanno dunque sbagliato ad appoggiare i progetti
dell’Unipol?
In nome del realismo hanno esitato nel farsi le domande giuste. E
così guidati dall’istinto che porta ognuno a difendere il proprio mondo hanno
dato l’impressione di avvallare una regressione neo-corporativa. Il vero virus
è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente
evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti.
E il leader del suo partito Ruteli ha fatto bene a criticare i Ds?
In questo caso ho condiviso e condivido le sue posizioni.
L’impossibilità di affrontare il tema col respiro che merita ha consentito
purtroppo di far passare il confronto per una “polemichetta”.
Banche e governatore. Anche a Palazzo Koch gli interessi le sembrano
avere la meglio?
Da cittadino comune ho letto sui giornali quello che hanno letto
tutti. Di fronte allo spettacolo al quale siamo stati costretti ad assistere,
dire che le dimissioni del governatore sono opportune è eccessivamente
riduttivo. Sono doverose. Se dovesse prevalere un atteggiamento irragionevole
spero proprio che il Consiglio superiore della banca d’Italia si faccia carico
della sua responsabilità ed eserciti i suoi poteri. Lo dico pensando alle
persone autorevoli che lo compongono. Basti per tutti Cesare Mirabelli,
presidente emerito della Corte Costituzionale.[64]
Fino ad ora
abbiamo parlato del confronto faccia a faccia politico-giornalista, indirizzato
alla carta stampata o alla tv. Esiste però anche un’altra pratica non molto
allettante. Si tratta della “mischia”, dove tutti i giornalisti e i cameraman
attendono all’uscita dalla segreteria del partito o dal Parlamento i politici e
sgomitano per ottenere una loro dichiarazione. Il giornalista canadese Dave
Rogers, cronista parlamentare per un decennio, li descrive così:
“Odio gli assalti alla diligenza. Sono poco professionali, ridicoli e
disgustosi. Ma se è l’unico modo di arrivare al tizio, bisogna farli. Oggi come
oggi, con parecchi politici, è l’unico modo per arrivare fino a loro. In una
giornata tranquilla, non è raro trovarsi di fronte al Parlamento in compagnia
di 60 persone in attesa come te: 15 telecronisti, ciascuno accompagnato dal
proprio cameraman, e 30 radiocronisti. E qualche volta l’interrogatorio no
comincia nemmeno, perché il politico è circondato da gente impossibilitata a
far domande. Ho sentito politici chiedere disperatamente una domanda, ma senza
successo: la gente era troppo impegnata a difendersi da spinte, gomitate e
pestoni. Non si può cadere, tanta è la ressa, ma rompersi un braccio o una
costola si. I cameraman sono avvantaggiati perché possono usare le telecamere
come arma d’offesa e difesa. Per la sua stessa natura, questo tipo d’assalto
non può durare a lungo, perché è veramente faticoso, fisicamente insostenibile.
E intanto il politico se la ride, perché lui deve fare solo una cosa: scegliere
le domande più convenienti a lui. Gliene arrivano quattro o cinque alla volta,
e lui sente solo quelle che gli fanno comodo. Hanno imparato a guardare la
telecamera, e se sei impallato non ti degnano d’attenzione. Una vera
disperazione, insomma. Per tutti, tranne il politico, il quale, quando ha
finito, ringrazia e se ne va”[65].
L’intervista
culturale
Nelle pagine
dedicate alla cultura non troviamo mai un rapporto così controverso tra
intervistato e intervistatore. Cambiano
soprattutto il tono e lo stile
delle interviste.
Furio Colombo
la descrive con queste parole:
“L’intervista
culturale sarebbe meglio condurla con il tono amichevole della conversazione.
In essa si invita l’autore di testi e di idee a chiarire il proprio lavoro, a
prendere atto delle obiezioni, a precisare le intenzioni, a rispondere alle
critiche che sono quasi sempre di natura disinteressata”[66].
Nelle pagine
della cultura è più il clima è più disteso rispetto all’ambito politico. Il
dibattito si fa più ideologico, la polemica verte su argomenti storici,
letterari, editoriali. I temi trattati sono trasversali, e i giornalisti che si
occupano delle interviste non sempre fanno parte della redazione culturale:
anzi, a volte si tratta di prime firme del giornale, cronisti esperti o
addirittura scrittori e intellettuali prestati al giornalismo
Recentemente
il Corriere della Sera ha intervistato lo scrittore brasiliano Paulo
Coelho, dieci anni dopo l’uscita del suo libro più famoso, L’alchimista.
Per vendere 65 milioni di libri esiste una strategia commerciale?
Tutte le ricette per scrivere un bestseller mi fanno ridere. L’unico
segreto è il bouche-à-l’oreil, il passaparola.
E anche il favore della critica e lo spazio sui giornali?
La critica deve essere l’ultimo dei pensieri di uno scrittore. È solo
l’ultimo passaggio di un lungo percorso. Non è merito dei giornali se ho
venduto 65 milioni di copie. Conta più il sostegno degli editori.
(…) Perché viaggia tanto? Non si dice nell’Alchimista che anche i
pastori, come i marinai e i commessi viaggiatori, conoscono sempre una città
dove esiste qualcuno capace di far dimenticare loro il piacere di vagabondare?
La mia città è l’autostrada. E l’autogrill è la mia casa. Non c’è una
spiegazione: sono un nomade, non un sedentario. A Barcellona, per esempio, sono
andato ad aiutare una persona che sta scrivendo una biografia autorizzata
Non era meglio scriversela da solo?
No, perché mi annoierei a morte. Non sopporto di rivisitare il mio
passato. Sarebbe un suicidio. Io sono vivo soltanto nel presente.[67]
Accanto alle
pagine culturali, in ogni quotidiano troviamo sempre le pagine dedicate agli
spettacoli, con le relative interviste ad attori, registi, personaggi
televisivi.
Qui il rischio
è quello di cadere nell’intervista promozionale: un attore parla volentieri e
benissimo del suo ultimo film, un cantante spiega con dovizia di particolari il
suo ultimo disco. Il giornalista deve essere bravo a stimolare l’intervistato
con domande intelligenti, portargli delle critiche, uscire dal suo orticello
allargando l’orizzonte dei quesiti. Per evitare di fare dell’intervista una
forma di pubblicità non pagata.
Ad esempio, Repubblica
ha intervistato in occasione dell’ultimo festival del cinema di Venezia il
regista americano Tim Burton.
Mentre il suo “Charlie e la fabbrica di cioccolato” sta trionfando in
tutto il mondo, Tim Burton sta già accarezzando il suo nuovo film, anzi
accarezza il pupazzo protagonista di “Cops Bride”.
Voglio bene a Victor. Ha le sembianze di Johnny Deep perché Johnny è
il mio alter-ego, e incarna perfettamente il solitario fuoriposto in un mondo
ostile che a me piace tanto. Credo che questo film sia il completamento di Nightmare
before Christmas. Qui ci sono più personaggi umani, cosa molto difficile da
realizzare con questo medium, ma il feeling è simile.
(…) Per Cops Bride sono stati usati nuovi dispositivi per le espressioni facciali.
Il bello della tecnica stop-motion è la sensazione che tutto sia
disegnato a mano. È come “Pinocchio” o “Frankestein”: dare vita a un oggetto
inanimato. E per me è una gioia vedere la mano dell’artista sullo schermo. [68]
L’intervista
sportiva
“Abbiamo fatto
una buona partita, sono contento per il gol ma ancor di più per la squadra.
Ringrazio il mister che mi ha dato la possibilità di giocare e spero di avere
ripagato la sua fiducia”. Questa dichiarazione potrebbe essere stata fatta da
un qualsiasi calciatore interpellato al termine della partita dal cronista
sportivo di turno.
In Italia parlare di sport equivale
(purtroppo) a parlare di calcio. E dire interviste nel calcio equivale a dire
banalità. Ogni turno di campionato o di coppa le Tv e i giornali si riempiono
di interviste ai protagonisti, i quali ripetono sempre le stesse quattro frasi,
sulla squadra, la voglia di fare bene, i complimenti all’allenatore se le cose
vanno bene, e via dicendo. Per non parlare del precampionato estivo, dove alla
presentazione del nuovo acquisto non mancano frasi come: “Sono in una grande
società che ha fatto tanto per avermi qui”, “sono orgoglioso di vestire questa
maglia”, “penso che chiuderò qui la
carriera”, “non vedo l’ora di allenarmi e giocare con i nuovi compagni”. Si
potrebbero quasi scrivere senza farle, le interviste calcistiche.
Le ragioni di
queste dichiarazioni-fotocopia vanno ricercate nell’intricato sistema che in
Italia regola i rapporti tra il mondo dell’informazione sportiva e le società
calcistiche.
In questi
ultimi tempi di business sfrenato nel calcio, di investimenti milionari e di
diritti televisivi pagati a caro prezzo dalle emittenti, per una squadra di
calcio è diventato essenziale avere una buona immagine da trasmettere a tifosi,
sponsor e media. Per questo ogni club si è dotato di un forte apparato di
comunicazione, dove gli addetti stampa fungono da filtro tra i giocatori e i
giornalisti. Se voglio avere due battute di Christian Vieri, è necessario avere
l’assenso dell’ufficio stampa del Milan, per sapere come sta il bomber Adriano
di quello dell’Inter. Le barriere si
intensificano ancor di più se le testate osano parlare male della società in
questione, oppure vogliono semplicemente uscire dalle domande scontate de tipo:
“È stata proprio una bella stagione
questa per te, non credi?”. Naturalmente le maglie si allentano se la testata
ha un occhio di riguardo per la società.
È difficile
poter intervistare i protagonisti. Ancor più difficile è porre domande scomode, se i giornalisti
vorranno avere il piacere di intervistarlo in futuro… In questo clima - che
qualcuno non esita a definire ricattatorio – le società arrivano a promettere
l’intervista esclusiva di uno dei suoi giocatori più rappresentativi con una
testata. La quale, in cambio, non critica sulle sue colonne o nei suoi servizi
tv la società in questione, il suo allenatore e i suoi giocatori. Le società
hanno il coltello dalla parte del manico: come segno di disaccordo nei
confronti della critica, possono anche attuare il silenzio stampa.
Durante tutto
il corso dell’anno, le società calcistiche preferiscono parlare con i media
attraverso le conferenze stampa, dove a turno un giocatore risponde ai quesiti
di tutti i giornalisti della stampa, della radio, e della televisione. In
Champions League questi incontri con la stampa sono addirittura obbligatori il
giorno prima della gara, alla presenza dell’allenatore e del capitano di ogni
squadra. Ogni giornalista non può fare più di una o due domande, il tempo è
ovviamente limitato, e un addetto dell’ufficio stampa pronto a intervenire in
caso di domande “non gradite”.
In alcuni casi
i giornalisti di carta stampata rielaborano le risposte date dal giocatore in
forma di intervista diretta, come se il confronto fosse avvenuto a tu per tu
(cfr cap.1). Inutile dire che si tratta di una grave scorrettezza che inganna
il lettore.
Al termine
delle partite, invece, la corsa per accaparrarsi le dichiarazioni “a caldo”
viene regolata dall’acquisizione dei diritti televisivi. L’emittente
satellitare Sky, di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, ha
comprato l’esclusiva della diretta delle partite: quindi al fischio finale i
cronisti di questa Tv hanno la precedenza assoluta. Subito dopo, i protagonisti
del match devono presentarsi dai colleghi del digitale terrestre (Mediaste o
La7). Successivamente, passano dalla Tv di stato; poi dalle altre televisioni
private e, infine, giungono stremati dai giornalisti della carta stampata.
Mediamente, gli allenatori e i giocatori più importanti ci mettono un’ora prima
di liberarsi dalle interviste del dopo-gara con tutte le testate, alle quali
naturalmente ripetono più o meno le stesse quattro cose, discutono gli stessi
casi da moviola, e rispondono in definitiva alle stesse domande. Le Tv pagano centinaia di milioni di euro per
ottenere i diritti delle partite, e quindi possono avere prima i protagonisti.
Questo
regolamento dovrebbe essere una garanzia per il telespettatore e per il diritto
di cronaca, in realtà ha numerosi difetti:
a) Nei programmi del dopo-gara come Sky
Calcio Show (Sky Sport 1, domenica dalle 13 alle 19) o Stadio Sprint (Rai2,
domenica alle 17), i protagonisti dai vari campi arrivano in contemporanea, e
il conduttore da studio deve districarsi tra i vari collegamenti cercando di
trovare un ordine ragionevole delle interviste. Di conseguenza alcuni giocatori
o allenatori aspettano molto tempo prima di essere intervistati; a volte
stanchi di attendere obbligano il cronista a registrare l’intervista che verrà
poi mandata in un secondo tempo.
b) Il poco tempo a disposizione non
permette di fare un’analisi approfondita con il protagonista. Se l’intervista
con il capitano della Juventus Alessandro Del Piero dura troppo, ad esempio, si
rischia di dover poi liquidare l’asso brasiliano del Milan Kakà con due battute
veloci perché il tempo stringe.
c) C’è disparità tra gli intervistatori
presenti al campo e quelli in studio. In questi programmi il giocatore viene
intervistato prima dal cronista presente negli spogliatoi, poi dal conduttore
del programma e in seguito dagli opinionisti in studio. I quali avendo dovuto vedere otto o nove
partite in contemporanea si trovano spesso impreparati e fanno domande banali o
fuori tema.
d) Con i protagonisti si finisce troppo
spesso per discutere a lungo della moviola (abitudine tutta italiana) e degli
episodi arbitrali più contestati, finendo con l’annoiare il telespettatore.
e) Alla stampa restano le briciole: i
protagonisti arrivano dopo troppo tempo in conferenza stampa. Tanto vale non
mandare gli inviati allo stadio e trascrivere le dichiarazioni rilasciate a
Sky.
Ilaria
D’Amico, noto volto televisivo, conduce per Sky il programma “Sky Calcio Show”, che trasmette il prepartita,
le interviste e i commenti alle partite di tutta la serie A. Al fischio finale
i protagonisti si collegano dai campi con il suo studio, e lei sceglie i turni
di battuta, modera il dibattito e fare delle interviste sensate. Compito
tutt’altro che facile.
“La cosa più difficile è trovare il giusto ritmo della trasmissione,
per evitare di fermarsi troppo da un giocatore oppure lasciarli troppo
velocemente. È un compito arduo, anche perché noi in studio vediamo tutte le
partite insieme, e certi particolari possono sfuggirci. La diretta è
determinante, da un momento all’altro una dichiarazione o un episodio può
scombinare tutta la scaletta che avevamo in mente. Il fatto che io sia una
donna ha condizionato molto il mio ingresso in questo campo, forse da me i giocatori
si intrattengono più volentieri perché ho uno stile apprezzato e nuovo. Quando
guardavo i programmi televisivi quello che mi colpiva era l’impossibilità di
sapere cosa succedeva nello spogliatoio, vero luogo sacro di ogni squadra. In
genere ciò che si dice o accade lì non si deve mai sapere al di fuori. Con le
mie interviste cerco invece di farlo uscire il più possibile”[69].
Il calcio
cannibalizza gli spazi sui giornali e in televisione. Tuttavia, le interviste
migliori sono quelle riguardanti gli altri sport, erroneamente definiti
“minori”. Soprattutto durante le Olimpiadi, le massime manifestazioni sportive
che ogni quattro anni danno risalto a molte discipline sconosciute o
sottovalutate. I giornali e le Tv rappresentano l’evento Olimpiade da ogni
angolazione, e l’intervista è certamente uno strumento utile a questo
proposito. Un colloquio con i campioni italiani
può essere utile per scoprire storie di uomini e donne che per quattro
anni aspettano il loro momento con la storia: capire la loro origine, la loro
storia sportiva, la loro fatica risulta interessante e cattura l’attenzione del
pubblico. Nel mese delle Olimpiadi i palinsesti delle tv e le pagine sportive
dei quotidiani vengono scombinate: la pattuglia di inviati sportivi viene
rinforzata dalle grandi firme della testata oppure da cronisti di altri settori
del giornale.
È il caso di
Gian Antonio Stella, firma di punta del Corriere della Sera, che per
Sidney 2000 ha intervistato così la madre di Valentina Vezzali, medaglia d’oro
nel fioretto. Eccone l’inizio:
L’oracolo di Jesi, giura la mamma, glielo aveva annunciato tanti anni
fa. “Signora, la sua bambina la porto a vincere le Olimpiadi”. Per questo,
ieri, mentre se ne stava rintanata col cuore in tumulto sotto i tubi della
tribuna, incapace di allungare la testa per vedere come andava l’ultimo duello
(“Troppa emozione, troppa… Meglio non vedere”), la signora Enrica Benedetti
vedova Vezzali dice che sapeva come andava a finire: con la sua bambina sopra
tutti[70].
Sempre sul Corriere,
Gaia Piccardi ha parlato con la campionessa jesina. L’intervista comincia così:
Il parrucchiere del villaggio olimpico ha sbagliato la tintura.
Enrica vezzali quasi non riconosceva più la sua bambina. Poi ha abbozzato: “È
un modo per esternare quello che ha dentro”. Cuore di mamma perdonerebbe tutto.
Valentina ammette: “Ho esagerato col rosso, gli avevo chiesto un colore
scaccia-invidie al posto del solito castano”.[71]
L’intervista
nella cronaca
Nelle pagine e
nei servizi televisivi dedicati ai fatti di cronaca, le interviste sono quelle
che trasmettono al pubblico un maggior numero di informazioni, se confrontate
con gli altri settori fin qui analizzati. Non c’è l’intenzione di tratteggiare un ritratto del
personaggio intervistato, non ci si sofferma sui particolari di colore, o sulle
opinioni dell’interlocutore; piuttosto si va dritti al cuore della notizia, e
si raccolgono più particolari possibili per fare luce sull’accaduto. Questa
caratteristica rende più rare e più preziose le interviste “incontro” (quelle dove
il giornalista può intrattenersi faccia a faccia con il personaggio per un
periodo di tempo sufficiente a porre tutte le domande necessarie). Sono rare
perché è difficile avere un colloquio con le persone coinvolte in un omicidio,
o parlare con un ricercato dalla polizia. Sono allo stesso tempo preziose,
perché se ben fatte possono portare a dei veri e propri scoop, soprattutto in
televisione, dove l’immagine colpisce più della parola scritta e permette di
conoscere più da vicino il personaggio (tono di voce, pronuncia, aspetto,
abbigliamento non sono visibili negli articolini giornale Nell’estate 2004 per
il Tg5 di Enrico Mentana fu un bello scoop intervistare la famiglia di Angelo
Quattrocchi, l’ostaggio italiano in Iraq assassinato dai terroristi. Allo stesso modo parlare con Anna Maria
Franzoni, la mamma di Cogne sospettata di aver ucciso il suo figlioletto
Samuele, ha fatto impennare l’audience del Maurizio Costanzo Show. Per non dire
dell’intervista al killer Donato Bilancia, realizzata in carcere dall’anchorman
Paolo Bonolis per la trasmissione di Rai1 Domenica In. L’incontro suscitò un
vespaio di polemiche infinite sull’opportunità dell’incontro. In questi casi,
le interviste si trasformano in piccoli eventi mediatici, con il conseguente strascico di polemiche e di
discussioni.
Nella cronaca
i quotidiani usano soprattutto lo strumento dell’intervista breve, di una o due
domande: le risposte consentono di avere più informazioni sull’evento e vengono
riportate in forma indiretta. Per ogni fatto importante degli ultimi anni,
dall’11 Settembre allo Tsunami, dall’attacco terroristico di Londra alla morte
di Papa Giovanni Paolo II, i quotidiani hanno pubblicato molti esempi di questi
collage di dichiarazioni. In tempi di frequenti attacchi terroristici, i quotidiani
hanno sempre pubblicato pagine e pagine di interviste ai sopravvissuti, ai
parenti delle vittime o dei dispersi.
Un altro
elemento ricorrente è l’intervista agli esperti. Questi sono criminologi,
psicologi, terapeuti, esperti militari, studiosi delle religioni a seconda
dell’avvenimento in questione. Il loro compito
dovrebbe essere quello di
inquadrare meglio l’accaduto grazie alla propria esperienza nel campo di
pertinenza.
Veniamo ad un
esempio concreto di come i giornali usano l’intervista nei fatti di cronaca. Il
6 Agosto scorso, un aereo ATR72 partito da Bari e diretto a Djerba, precipita
al largo di Palermo in seguito ad un’ avaria. I superstiti sono 23, i morti 10.
A pag.3 del Corriere della Sera del 7 Agosto troviamo un lungo articolo
che riporta le dichiarazioni dei sopravvissuti, in forma indiretta, attraverso
un collage di brevi interviste. Riportiamo alcune righe del pezzo di Dino
Martirano:
Il dottor Roberto Fusco abbraccia con lo sguardo la sua fidanzata
Ilaria Lo Bosco, studentessa di Economia. È lei che ha raccontato ai medici
come è andata: “Sono viva per miracolo. Mi ha salvata il mio ragazzo. Eravamo
seduti uno accanto all’altro e ci siamo stretti forte quando l’aereo ha
iniziato a perdere quota. Lui ha capito subito cosa stava accadendo e mi ha
slacciato la cintura di sicurezza. Da sola non ce l’avrei fatta, no avrei
saputo muovermi: ero bloccata dal panico”. La paura di morire paralizza,
annebbia la mente, ma fa fare anche cose incredibili. Racconta Gianluca La
Forgia, 25 anni di Bari, ricoverato al “Civico”, che ha ancora in testa un
cappellino prestatogli dalla Guardia di Finanza: “Ho sganciato la cintura
mentre stavamo precipitando, poi l’impatto violento con l’acqua. Allora ho
preso per mano Annalisa e siamo riusciti a infilarci nel varco. L’aereo si è
spezzato e così siamo usciti. È stato come in un film, poi mi è venuto in mente
il Titanic che ho visto al cinema”. Continua la fidanzata di Gianluca,
Annalisa: “È stato drammatico. Quando
sono riemersa grazie al salvagente ho raggiunto l’ala dell’aereo alla quale
siamo rimasti aggrappati fin quando sono
arrivati soccorsi. Ma non era facile rimanere in quella posizione perché le
onde ci sommergevano. Però siamo riusciti a rimanere attaccato all’ala per
almeno un’ora, poi finalmente è arrivata una motovedetta della Guardia Costiera
e siamo riusciti a rimanere a bordo”30.
A pag.5, di
spalla, ecco l’intervista all’esperto realizzata da Claudia Voltattorni. Si
tratta di Flavio Sordi, pilota Alitalia con 25 anni di volo sulle spalle.
L’ammaraggio è l’extrema ratio, ci si arriva quando l’aereo non può
più fare nulla
È una manovra molto
difficile?
Si tratta di sicuro dell’operazione più complicata, anche perché
quando il pilota decide di ammarare vuol dire che l’aereo è nelle condizioni
peggiori
Che significa?
Che non è più in grado di volare e che non può raggiungere alcuna
superficie terrestre, questa emergenza in termine tecnico si chiama ditching.
Che cosa si deve fare in questo caso?
Il velivolo deve arrivare ad una velocità bassissima per ridurre
l’impatto con l’acqua, quella dell’Atr è di 100-105 nodi (circa 210 chilometri
orari).
(...) Come è possibile che l’Atr72 si sia trovato in condizioni tanto
critiche?
Bisogna aspettare che si sappia qualcosa di più, però è incredibile
che l’aereo abbia avuto un’avaria ad entrambi i motori, è rarissimo che accada.
Cosa pensa del pilota dell’Atr?
È stato bravissimo, ha fatto un miracolo riuscendo a portare in acqua
l’aereo senza farlo spezzare né affondare, davvero un miracolo.[73]
Quando si
riesce a intervistare un protagonista di un fatto di cronaca il confronto può
diventare delicato. Bisogna insistere senza sembrare invadenti; accusare senza
processare; formulare delle domande che non contengano già dei giudizi
sull’accaduto.
Il 31 Ottobre
2002, una scuola elementare di S.Giuliano di Puglia frana a causa delle
ripetute e violente scosse di terremoto
che colpiscono la zona, provocando 29 morti e 61 feriti. Due giorni dopo, sul
quotidiano La Repubblica esce un’intervista al sindaco del piccolo
paese, Antonio Borrelli, il quale ha perso una figlia di sei anni nel crollo.
Testimone del tragico evento, il sindaco è stato accusato di aver concesso
l’abitabilità all’edificio scolastico anche se questo non rispettava le norme
di sicurezza e di non aver chiuso le scuole alla prima scossa. Ecco un brano
dell’intervista:
Una strage annunciata, signor sindaco?
Questa è una menzogna bella e buona.
Ma il parroco del paese, dopo la scossa nella notte fra Mercoledì e
Giovedì, non aveva cercato di convincerla a chiudere le scuole temendo il
peggio?
Non è vero che Don Ulisse abbia telefonato al Municipio. Comunque, in
nessun caso ha parlato con me.
Forse però aveva ragione. O no?
Io so soltanto che dopo la prima scossa, quella delle 3 e 24 del
mattino, fosse caduto a terra anche un calcinaccio uno, avrei ordinato di
sbarrare le porte dell’edificio scolastico.
Invece che cosa è successo?
Giovedì mattina ho domandato agli insegnanti se potevano esserci dei
problemi di qualunque tipo. Mi hanno risposto di no. (…)
Sua figlia Antonella e gli altri alunni della scuola elementare e le
insegnanti e i bidelli erano sotto una montagna di detriti…
Mi sono messo a scavare come un forsennato, aspettando che
arrivassero le prime squadre di soccorso. Poi, ho dovuto fare un giro di
ricognizione. Questo è un paese in pratica distrutto, l’80 per cento delle case
è inabitabile. Ecco perché è scandaloso puntare il dito soltanto sull’edificio
scolastico.
Essendo l’unico che non è riuscito a rimanere in piedi, è
inevitabile...
Sì, ma non avete il diritto di prendervela con questa amministrazione
comunale. Dovreste prendervela con chi l’ha costruito, cinquant’anni fa.
Ha il timore di essere indagato dalla magistratura di Larino?
Io non temo nessuno, e soprattutto, ho la coscienza tranquilla.[74]
“Talvolta
compaiono interviste immaginarie ora realizzate in forma diretta, ora col
discorso indiretto. La tecnica resta inalterata. Sui contenuti chi scrive
ricorre alla massima libertà d’espressione e stabilisce l’argomento. Questo
genere d’articolo può assumere il gusto dell’esercizio letterario e fantastico.
Per la sua riuscita occorre un requisito fondamentale: conoscere bene il
personaggio che si sceglie per l’intervista immaginaria. Quanto più verranno
usate espressioni appropriate e veridiche rispetto al suo modo di pensare e
quanto più si avrà familiarità con al sua persona fisica e con il suo
carattere, ricorrendo a particolari, modi di fare, episodi realmente accaduti
tanto più l’intervista susciterà curiosità. L’intervista immaginaria può
assumere un aspetto di gioco, di “divertissement” o può, al contrario,
trasformarsi in un espediente per un ragionamento serio su particolari
questioni politiche, morali, di costume, culturali. Un modo di esprimere quel
che si pensa e come lo si argomenta, attraverso una terza persona. Non si
tratta di un’operazione difficile: oltre ai requisiti richiesti per una normale
intervista, qui serve fantasia, una maggiore capacità di immedesimazione in
situazioni irreali, di immaginazione, di dimestichezza con argomenti e persone”[75].
Per esempio,
sul Sole-24Ore di Venerdì 22 Aprile 2005 viene pubblicato un dialogo
immaginario tra due illustri esponenti storici del pensiero laico italiano, il
liberale Giovanni Malagodi e il repubblicano Giovanni Spadolini. L’articolo,
curato da Salvatore Carruba, Stefano Folli e Fabrizio Forquet, può essere
considerato un esempio della tecnica giornalistica dell’intervista immaginaria.
L’argomento è l’elezione del nuovo Papa Benedetto XVI.
Giovanni Malagodi: “Caro Giovanni, con il nuovo Pontefice mi tolgo
una bella soddisfazione. E sai perché? Ti voglio raccontare un episodio
lontano: ai tempi della mia partecipazione alla missione italiana all’Ocse,
subito dopo la guerra una sera, dopo cena, scherzammo con i colleghi
sull’ordine religioso al quale ciascuno di noi sarebbe stato più adatto. La
discussione non fu facile, ma – come ho scritto – ‘su un punto furono tutti
d’accordo, tutti e presto: che io, Giovanni, fossi sì fuor di ogni dubbio un
laico, ma anche un potenziale benedettino, un frate dell’Ordine primogenito
dell’Occidente, quello di san Benedetto. Dovetti ammettere che era vero. Ora et
labora – prega, riconosci, tu piccolo uomo, l’assoluto e perditi in lui,
lavora, tu piccolo uomo, impiega la tua persona-individuo, le tue proprie doti
di intelletto e di volontà per migliorare le umili ed alte cose di questa terra
e di questa umanità’. Adesso il nome di Benedetto è stato fatto proprio dal
capo della Cristianità: e mi chiedo se nella sorpresa e nell’entusiasmo per il
nome che egli ha scelto ci sia qualche traccia del mio sentimento, della mia
fiducia nella centralità dell’individuo e nelle sue potenzialità”.
Giovanni Spadolini: “Centralità dell’individuo, già, caro mio, una
centralità che a noi laici a volte fa sentire una comunanza profonda con
l’umanesimo cristiano. Ne ho avuto la certezza all’indomani del Concilio
Vaticano II. Ricordo ancora le parole di Paolo VI… Parole altissime. Lo scrissi
sull’Osservatore romano della domenica: leggete libertà al posto di vita, e più
che mai il segreto di questo concilio vi apparirà nel suo v ero e più genuino
significato di incontro tra i valori perenni del le posizioni più alte di quella religione della
libertà cui lo steso Papa ha riconosciuto dignità di insegnamenti morali e che,
ricordando Croce ‘non possono non dirsi cristiane’. Ecco, mi piace pensare, lo
spero, che l’’umile lavoratore della vigna del Signore’ sia parte di questo
umanesimo”[76].
La tecnica
dell’intervista immaginaria è stata sapientemente utilizzata nel Luglio del
2004 anche da Oriana Fallaci, che ha scritto un colloquio con sé stessa
pubblicato con il titolo Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Attraverso una serie di domande e risposte,
la giornalista espone le sue riflessioni sul terrorismo islamico, sulla perdita
d’identità dell’Occidente, sulla politica italiana e internazionale, sulla
guerra in Iraq e sulla sua malattia che l’affligge da tempo. Ecco l’inizio del
libro-intervista:
ORIANA FALLACI. La vedo molto stanca. Molto consunta, molto
dimagrita. Come sta?
ORIANA FALLACI. Male, grazie. Però non se ne preoccupi. La testa
resiste benissimo (…). È come se la mia
mente fosse del tutto estranea al mio corpo. Un fenomeno interessante. Può la
mente opporsi alla morte, ostacolarla, ritardarla? Forse quella formula
contiene gli anticorpi che rifiutando di lasciarsi soggiogare dalle cellule
impazzite mi forniscono una specie di immunità.
Me ne rallegro e chiarisco subito un punto. Questa intervista non
avrà nulla in comune con quelle che facevamo ai potenti della Terra. Il mio
ruolo, stavolta, sarà semplicemente quello di porle brevi domande, spronarla a
parlare. D’accordo?
D’accordo, ma di punti devo chiarirne altri due o tre. Primo: detesto
le interviste, le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevamo ai
cosiddetti potenti-della-terra. Per esser buona un’intervista deve infilarsi,
affondarsi nel cuore dell’intervistato. E questo mi ha sempre incusso disagio.
In questo ho sempre visto un atto di violenza, di crudeltà. Secondo: ho sempre
detestato quelle che i giornalisti facevano a me, non di rado manipolando le
mie parole, alterandole fino a rovesciarne il significato, aggiungendo al testo
scritto domande che non avevano avuto il coraggio di fare e quindi risposte che
non avevo mai dato, poi riparandosi dietro il sacro principio della Libertà di
Stampa. Infatti a un certo punto dissi basta, non mi beccate più. (…)
Allora perché ha accettato di vedermi?
Perché ho la morte addosso. Però ho tante cose da dire, e
un’intervista m’è parsa il mezzo più sbrigativo per dirne almeno alcune.
Il terzo punto qual è?
Questo. La proposta di far intervistare la Fallaci dalla Fallaci mi
insegue da decenni. Cento volte me la son sentita rivolgere, cento volte. In
ogni lingua, in ogni paese. E l’ho sempre respinta con un secco no-grazie. Io
non ho compagni segreti che si nascondono a bordo della mia nave. Non ho
bisogno di frugare dentro la mia coscienza attraverso di loro. La mia coscienza
traspare in modo lampante da ciò che scrivo, ossia dalle idee che esprimo senza
ipocrisia. Non mi piace, insomma, indulgere ad autoritratti. Non mi piace
nemmeno offrire il volto ai fotografi, cameraman, alla curiosità della gente.
Mi dolgo d’averlo fatto in passato e, ogni volta che vedo quelle dannate
fotografie, sbuffo. Anche se stanno sulla copertina d’un libro. (…) Questa
intervista è iniziata con la rivelazione brutale della malattia che oggi
condiziona la mia esistenza. La domina. Ma a parte il fatto che la mia malattia
non la nascondo mai, ne ho parlato per introdurre l’argomento che mi preme. E
questo argomento non è la Fallaci: è l’Italia. L’Occidente, l’Europa, l’Italia
più ammalata di me. Faremo un’intervista politica, amica mia. Lo sa?[77]
Da qui in
avanti l’autrice usa le domande immaginarie per spezzare il ritmo delle sue
riflessioni sui temi d’attualità espressi con il consueto stile
vibrante, polemico nei toni e decisamente aggressivo. La Fallaci si intervista
ma è come se scrivesse un libro, imbeccata da una parte di lei che la interroga
sul presente. Il risultato è un esempio riuscito del genere dell’intervista
immaginaria che in libreria è diventato presto un bestseller.
2.6 Stampa
e televisione: come cambia l’intervista
La tecnica
giornalistica dell’intervista si differenzia anche in base al mezzo di
comunicazione con il quale viene effettuata. Non è la stessa cosa intervistare
la stessa persona per la televisione o per un quotidiano: i risultati sono
spesso due interviste completamente diverse per chiarezza, scorrevolezza,
impatto e ritmo. Da una parte la forza dell’immagine, capace di trasmettere
oltre alle parole tutti i segnali della comunicazione non verbale e del
linguaggio del corpo; dall’altra, la forza della parola scritta e la
rielaborazione del giornalista, e un brano scritto sul quale si può tornare
anche in un secondo momento. C’è sempre un giornalista che pone le domande e un
intervistato che risponde, eppure dal punto di vista tecnico possiamo parlare
di due incontri differenti per diversi aspetti, che ora analizziamo.
a) Il tempo e lo spazio
Il giornalista che deve portare a casa un’intervista scritta, sa già
che avrà a disposizione un certo numero di righe, e comunque non potrà in alcun
modo uscire dagli spazi concessi in pagina per l’articolo. In televisione è
sempre una questione di tempo: non si deve sforare dai tempi del servizio o del
programma, né si può temporeggiare per arrivare a tutti i costi alla durata
prestabilita. Nelle interviste scritte c’è un maggior lavoro del giornalista in
sede di rielaborazione, perché per essere in linea con lo spazio e per rendere
leggibile il colloquio l’autore deve esercitare una attenta opera di “taglia e
cuci”. È vero che anche in tv si usa il
montaggio per dosare i tempi, ma è meno evidente la mano del giornalista.
Addirittura nelle interviste in diretta la rielaborazione è nulla: si manda in
onda tutto senza alcun intervento. Beppe Severgnini, che conduce da anni
interviste per il Corriere della Sera e per la Tv (Severgnini alle
dieci, SkyTg24, Sabato alle 22), vive così il problema del tempo e dello
spazio:
“Nei quotidiani c’è più lavoro di rielaborazione, fermo restando che
il virgolettato riguarda parole effettivamente dette dall’intervistato: per lo
spazio magari bisogna tagliare, mentre nel mio programma Tv facciamo interviste
di mezz’ora che mandiamo quasi sempre nella loro totalità. A volte capita di
dover tagliare, ma si tratta sempre di pochi secondi”.[78]
Questa disparità di tempi tra i colloqui riportati in forma scritta e
quelli televisivi è determinante: da questa aspetto, infatti, dipendono anche
tutti gli altri elementi che analizzeremo.
b) La profondità del colloquio
La complicità tra intervistatore e intervistato, e il livello di
profondità delle domande variano molta dalla televisione alla stampa. In poche
domande è difficile scardinare le difese di un interlocutore reticente;
viceversa se c’è tanto tempo a disposizione l’interlocutore generalmente tende
ad aprirsi, a dare più elementi interessanti nelle sue risposte e a parlare di
sé in modo meno superficiale. Questa capacità di penetrare nel vissuto e nelle
situazioni più intime degli intervistati, resta appannaggio dei giornalisti
della carta stampata: in Tv il tempo non
permette quasi mai di andare oltre un numero esiguo di domande, mentre sui
giornali le interviste della lunghezza di una pagina possono contenere anche
quaranta, cinquanta o settanta domande.
Non a caso è sui giornali che troviamo le interviste “ritratto”, dove
si cerca di descrivere un personaggio in profondità. Inoltre le risposte degli
intervistati sono più articolate e complete sulla stampa: c’è la possibilità di
spiegare termini particolarmente complessi e argomentare le proprie riflessioni
con calma e con la garanzia del registratore. In tv magari ci si limita alla
battuta ad effetto o alla sottolineatura ironica senza poter entrare nel
dettaglio delle questioni.
In proposito Stefano Lorenzetto sostiene:
“Le vere interviste, quelle dove si può ottenere delle
informazioni realmente interessanti, rimangono ancora quelle fatte per la
stampa. In televisione c’è molto più controllo. Io sul giornale al limite posso
anche tagliare le stupidate che possono uscire per sbaglio da chi mi sta di
fronte. Davanti alla telecamera no: c’è il
rischio di prendere delle topiche clamorose, e per questo gli intervistati
rischiano molto di più. Inoltre non si raggiunge quasi mai la profondità di un
colloquio di 4 ore, proprio per la questione dei tempi. Per un’intervista io
calcolo sempre un incontro della durata minima di tre ore, anche se l’ideale
sarebbe trascorrere una giornata con l’intervistato. A colazione, poi, bisogna
sempre avere il bloc-notes a portata di mano: spesso vengono fuori le cose
migliori”[79].
A Claudio Sabelli Fioretti, abbiamo chiesto tra le altre cose anche
le differenze tra un intervista per la stampa e una per la tv:
Un buon intervistatore sulla carta
stampata non è necessariamente un buon intervistatore per la tv. E viceversa.
In tv comunque è più facile, si vede se uno è in difficoltà
dall'espressione del viso, dalle smorfie dal tono della voce. Sui giornali
bisogna essere capaci di trasmettere tutto soltanto con la parola scritta...
E' vero anche il contrario. In tv è
difficile scendere in profondità.
Soprattutto per una questione di tempi. Interviste di ore e ore sono
impensabili. La tv secondo lei ha influenzato il modo di fare le interviste sui
quotidiani?
Una intervista in tv in diretta è tremenda. Bisognerebbe farle sempre
registrate. Come in fondo è per la carta stampata. Si registrano quattro ore e
se ne mandano venti minuti[80].
Mario Furlan ci dà un esempio
di quanto sia importante il fattore tempo: “Augusto Minzolini, cronista
parlamentare, lascia parlare i politici per ore di file: alla fine i freni
inibitori che hanno con un giornalista vengono meno, gli dicono cose riservate,
e lui le pubblica”.[81]
Lorenzetto concorda su quest’ultimo punto: “Conviene rinviare alla
fine le domande più scabrose: si è creata fiducia o complicità, l’intervistato
è stanco o sciolto, spesso pensa che siano chiacchiere di contorno o curiosità
individuali del cronista che non finiranno su carta”.[82]
c) L’immediatezza e la comunicazione non verbale
Il grande vantaggio dell’intervista televisiva, se paragonata con la
successione delle parole scritte, è l’immediatezza. Gli elementi comunicativi
trasmessi sono molto più ricchi e non sono ridotti alle sole parole. Anzi, a
volte più del contenuto risulta interessante il tono con il quale una
dichiarazione viene fatta, la gestualità che la accompagna, le pause fatte:
anche il linguaggio del corpo conta nelle interviste, e sui giornali è
difficile se non impossibile restituirlo. Addirittura Mario Furlan dice che “se
le parole trasmettono messaggi, ne trasmette molti di più il corpo, perché
possiamo mentire con le parole, ma non con il fisico”. In un’intervista
televisiva non si può incorrere in smentite: la telecamera non tradisce, si
possono avvertire o vedere le incertezze o gli imbarazzi di chi è chiamato a
rispondere. Al contrario sui giornali bisogna fare attenzione al contesto in cui
una frase è stata detta, al tono, e si rischia spesso di ribaltare la realtà.
Continua Furlan: “Nel 1995 Massimo D’Alema stava chiacchierando con
un cronista del mensile Prima Comunicazione. A un certo punto si è lasciato
scappare che preferisce essere intervistato in Tv che dai giornalisti della
carta stampata, ‘Perché la Tv è più onesta, non travisa la verità come i
giornali’ (…) D’Alema non aveva fatto altro che esprimere qualcosa che
all’estero è ormai comunemente risaputo: che, cioè, solo la TV stabilisce un
contato diretto con i cittadini, perché elimina la figura del giornalista,
diaframma tra politico e il pubblico. Nell’intervista scritta il giornalista
interpreta il pensiero di un altro; in Tv l’altro parla direttamente, mostra il
suo viso, esprima le sue emozioni, senza bisogno di intermediari”.
Sergio Zavoli condusse per la Notte della Repubblica una serie
di celebri interviste televisive. Poi le trascrisse e ne fece un libro
contenente tutta l’inchiesta sugli anni di piombo in Italia. Nella prefazione
del testo fa un esempio che può essere utile al nostro discorso:
Alcune interviste possono risultare significative anche per le
risposte che non ottengono. Nell’intervista a Bonisoli, alla richiesta di
descrivere il suo ruolo nell’uccisione della scorta di Aldo Moro, ci fu una
risposta silenziosa, cioè uno sguardo d’impotenza, di resa e insieme di
rifiuto. Poi, la successione di altre domande: “lei ha sparato quel giorno?
Quanti colpi?”. “Non ricordo, un caricatore”. “Su chi?”. E qui, il cortocircuito.
La domanda è perentoria, e ha l’aria di chiedere: “Glielo devo proprio dire,
magari precisando il numero di morti”. Allora allunga una mano verso le
telecamera e chiede: “Ci possiamo fermare?”. Io rispondo: “Si, certo…” Il video
si oscura e nessuno saprà mai quanto è durata quella pausa. Nel montaggio un
attimo; in questo libro, tre puntini di sospensione. Poi l’intervista
ricomincia, e ormai ha preso un’altra piega[83].
d) La scelta del personaggio
Intervistare la stessa persona per un giornale o per un’emittente
televisiva non è la stessa cosa. Scrivere non è come parlare; parlare seduti in
un caffé o su un comodo divano non è
come parlare davanti alla luce rossa della telecamera. Ci sono persone che
danno il meglio di sé in televisione, ed altre che invece devono essere
intervistate per forza sul giornale. Sentite Stefano Lorenzetto:
“Alcuni protagonisti di splendide interviste sui giornali in tv non
rendono affatto. Mi viene in mente Aurino Andreoli: avevo fatto un intervista
con lui e tutti mi avevano fatto i
complimenti, perché era venuta benissimo, era profonda, quasi commovente. Mi
aveva chiamato anche Maurizio Costanzo per farmi i complimenti. Poi lo stesso
Costanzo invita al suo talk show televisivo Andreoli e quello non riesce a
spiaccicare niente, nemmeno una parola, un disastro.
Pier Paolo Pisolini addirittura decise ad un certo punto della sua
carriera di non rilasciare più interviste per la televisione. Quando gli
facevano una domanda lui si prendeva un attimo di pausa, guardava le punte delle
scarpe, si concentrava e rifletteva sulle risposte, pensava a quello che
diceva. Ma in tv spesso non aveva il tempo di pensare alle risposte, perché c’è
fretta e terrore per i silenzi”[84].
È necessario fare sempre attenzione, dunque, a quale personaggio si
sceglie, al suo carattere, alla sua predisposizione comunicativa, soprattutto
alla sua reazione di fronte alla telecamera. Altrimenti si rischia di ottenere
un pessimo risultato.
e) La preparazione del giornalista
Paul Mac Laughlin individua dal punto di vista della preparazione due
differenze notevoli tra intervistatori della stampa e della tv:
I giornalisti della radio-televisione sono migliori intervistatori di
quelli della carta stampata; e quelli della carta stampata sono giornalisti più
completi. Esistono numerose eccezioni in entrambi i campi, ma nel complesso
credo che questo assunto sia vero. Quelli della televisione, per diversi
motivi, imparano presto le tecniche dell’intervista. Dato che microfoni e
telecamere registrano non solo le parole ma anche inflessioni di voce,
comportamenti e il linguaggio del corpo, e date le necessità di struttura e
dinamica del mezzo, diventa d’importanza critica sviluppare uno stile. I
giornalisti della carta stampata non hanno questa esigenza, quindi, si affidano
unicamente alla loro ricerca e alla loro capacità di scrittura. Una storia che
dipende interamente da un testimone ottimo, non citabile, può salvarsi solo
grazie ad un diligente ricerca e a una prosa brillante, ma importanti
informazioni e colorite citazioni possono andare perdute per strada proprio
perché non avete fato le domande giuste nella maniera giusta. D’altro canto, la
stampa richiede una ricerca molto più esatta e approfondita. Nell’intervista
televisiva è possibile cavarsela in qualche modo e scaricare tutto sull’ospite,
ma se scrivete per un giornale, un lusso simile non potete permettervelo, soli
davanti al vostro foglio bianco[85].
Anche Beppe Severgnini ammette di doversi preparare di più per un
intervista scritta:
“Nel mio caso, le interviste che faccio in televisione sono tutte a
colleghi che bene o male conosco, ho una redazione che mi prepara il materiale
e io in un pomeriggio sono già in grado di prepararmi le domande e la scaletta.
Sui giornali invece, capita di dover incontrare personaggi mai visti o
frequentati, e lì bisogna prepararsi bene e studiare anche per più giorni”[86].
L’intervista
radiofonica si caratterizza da una maggiore intimità del colloquio, lontana
dalle preoccupazioni dell’audience televisivo. Le caratteristiche di questa
tecnica sono facilmente individuabili: l’intervistatore agisce quasi sempre da
solo; il pubblico di ascoltatori è
limitato, l’intervista avviene quasi sempre in diretta. Inoltre in radio i tempi
si dilatano rispetto alla televisione: le interviste possono essere più
profonde, le domande più numerose e si possono toccare argomenti meno
conosciuti dal pubblico o meno scontati. L’intervistatore non deve sovrapporre
la propria voce a quella dell’ospite e deve evitare delle pause troppo
lunghe. La voce dell’intervistato è un
buon canale comunicativo e trasmette alcuni indizi, come il tono, le pause, il
volume della voce, l’inflessione o l’intercalare. Sergio Zavoli ha iniziato la
sua carriera di intervistatore alla radio, e analizza questa esperienza così:
“L’intervista orale nasce evidentemente dalla radio, dove si faceva
un grande abuso di parole. Bastava che una persona sollevasse un qualche
interesse per trattenerla a lungo, spesso al di là del necessario Credo di aver
parlato con migliaia di persone senza pormi il problema di farmi dire cosa mai
dette prima: non ricercavo, insomma, lo scoop. Mi lusingava invece lo scoprire,
talvolta, che mi venivano dette cose di cui l’interpellato non si credeva
capace, e che perciò non aveva ancora detto”.[87]
L’intervista
classica è quella dove un giornalista incontra di persona un personaggio, gli
pone delle domande, registra e annota il tutto, lo scrive e infine lo pubblica.
In realtà, vi sono persone che è difficile incontrare di persona, e quindi si
interpellano telefonicamente; altre a cui si mandano le domande scritte; altri
ancora a cui si inviano via mail le domande; altri che si vogliono scrivere le
domande e le risposte; altri ancora che prima concedono e poi smentiscono…
Insomma, le tipologie di interviste si moltiplicano e non sempre è facile
discernere tra le “vere” e le “finte” interviste. Vediamo alcuni dei casi nei
quali emergono queste trappole:
a) L’intervista
telefonica
Spesso non è
possibile per il cronista incontrare personalmente l’intervistato. I tempi
frenetici delle redazioni non permettono sempre un incontro faccia a faccia; in
certi casi gli impegni del personaggio consentono solo un breve colloquio al
telefono; oppure l’intervistato si può trovare all’estero o in posti
irraggiungibili. Per tutte queste ragioni l’intervista telefonica è molto
utile: non si vedono i dettagli fisici dell’interlocutore ma è possibile
cogliere comunque il tono di voce. Anche le pause, i sospiri, le risatine, i
colpi di tosse possono dare un quadro molto preciso dell’individuo. Bisogna
ammettere però che il lettore non riceve
la stessa qualità e quantità di informazioni di un incontro a tu per tu. Per
questo Stefano Lorenzetto nelle sue interviste pone una condizione: l’incontro
non deve mai avvenire per telefono.
In tv capita
talvolta di sentire personaggi raggiunti telefonicamente: mentre l’intervistato
parla in video si proietta un suo fermo immagine oppure delle immagini di
repertorio a lui dedicate. Sui quotidiani invece è una pratica più diffusa,
tanto che per Mario Furlan “sui
quotidiani molte interviste, almeno la metà, sono fatte per telefono; il che
andrebbe specificato”.[88] Il
problema è proprio questo: spesso non vene sottolineato che si tratta di un
colloquio telefonico. Il giornalista raccoglie le sue dichiarazioni, e poi le
rielabora in forma diretta, come se avesse incontrato di persona
l’intervistato. L’intervista c’è stata e dunque chi legge non viene ingannato
del tutto, però questa non è una gestione trasparente della tecnica
dell’intervista.
Le interviste
telefoniche possono anche diventare false interviste: un caso limite che ha
dell’incredibile si è verificato proprio nell’Agosto scorso.
Andrea
Gibelli, capogruppo leghista alla Camera, a fine Luglio concede un’intervista
alla rivista ondine Affari Italiani, nella quale fa suo l’appello alla
“discontinuità” nel governo auspicato dal presidente della Camera Pier
Ferdinando Casini, contraddicendo la linea del suo partito. Il giorno dopo,
però, smentisce tutto precipitosamente, giura che da tre giorni non parla con
un giornalista, che è in vacanza con la moglie e che delle dichiarazioni di
Casini ha letto a malapena il titolo. Sul Corriere della Sera del 2 Agosto
leggiamo la descrizione dell’equivoco telefonico che ha portato alla pubblicazione di una
“falsa intervista”:
Affari italiani, che ospita spesso e volentieri
interviste a esponenti del Carroccio, non si tira indietro. Ma fino a un certo
punto: “Il giornalista autore dell’intervista ne conferma il contenuto e può
dimostrarlo”. C’è un però rubricato alle voci “rettifica” ed “equivoco”: “Se
dall’altro capo del filo a rispondere alle nostre domande, confermando di
essere l’onorevole Gibelli, c’era un’altra persona, non siamo in grado di
dimostrarlo”. Insomma, si ipotizza che qualche buontempone esperto di
leadership e di discontinuità abbia fatto uno scherzo. Quello che è certo è che
il cellulare composto corrisponde a una vecchia utenza privata di Gibelli, che
lui spiega non essere “più attiva dal settembre 2003”. In effetti chiamando (in
serata) quel numero – che comincia per 335-6947… - si ottiene solo “errore di
connessione”. Chi ha risposto, dunque, al giornalista, ammesso che non ci fosse
Gibelli dall’altra parte del telefono? Non certo uno sprovveduto, visto il
contenuto dettagliato dell’intervista.[89]
Lo scambio
involontario di persona resta un caso improbabile, però porta inevitabilmente
alla disinformazione, e fa anche un certo effetto pensare di poter sbagliare
interlocutore...
Comunque,
quando si è certi che dall’altra parte del filo risponde proprio la persona che
vogliamo intervistare, è meglio far presente nell’articolo la forma telefonica
del colloquio. Come ha fatto per esempio Marco Pastonesi, il 9 Agosto sulla Gazzetta
dello Sport per l’intervista al ciclista Alessandro Petacchi:
Tu-tu, dum-dum, pronto. Tu-tu è il segnale del libero. Dum-dum è la musica della Pantera
Rosa. Tu-tu e dum-du-dum si sovrappongono. Poi, o scatta la segreteria telefonica,
o irrompe il suo pronto. Pronto, Alessandro?
Mentre si corre nel Benelux e in Portogallo, in Francia e nelle
Marche, Alessandro Petacchi è a casa, fra mari e monti, progetti e obiettivi.
Riassunto delle puntate precedenti: 12 vittorie per cominciare il 2005, la
numero 13 si chiama Milano-Sanremo, altre tre vittorie per arrivare alle
quattro colte al Giro d’Italia, poi stop. Ricominciamo da qui: “Rientro
previsto al Brixia e al Vallonia per preparare la Cyclassics di Amburgo, invece
un leggero stiramento muscolare mi fa saltare quelle corse. Torno direttamente
ad Amburgo”.[90]
Da questo
momento partono le dichiarazioni del corridore spezzino. Grazie all’indicazione
iniziale, il lettore è informato che sta leggendo la trasposizione scritta di
un colloquio telefonico e non di un faccia a faccia.
b) L’intervista via mail
Nel panorama dell’informazione on-line, si sta facendo largo la
tipologia nuova dell’intervista via e-mail, attraverso cioè un la posta
elettronica. Emilio Carelli, direttore del canale all-news SkyTg24, con un
lungo passato al Tg5 e alla direzione del quotidiano on-line TgCom, spiega i
motivi di questa nuova tendenza:
Si tratta indubbiamente di un modo di lavorare rapido e comodo,
poiché riduce i tempi di lavoro del giornalista, non più costretto a sbobinare
le registrazioni audio. Inoltre grazie a questa nuova opportunità si possono
raggiungere persone difficilmente contattabili in altro modo.
Accanto ai vantaggi dobbiamo però sottolineare alcuni aspetti
negativi. Se da un lato l’intervistato ha la possibilità di rispondere con
tutta calma alle domande, sicuro che ciò che scrive non potrà essere soggetto a
cattive interpretazioni, dall’altro scrivere le risposte richiede molto più
tempo di quello necessario a fornirle oralmente e questo in molti casi si
riflette sulla qualità stessa delle risposte, spesso troppo brevi, che rendono
l’intervista “povera”. Inoltre il giornalista non può avere la sicurezza che
sia davvero l’intervistato a rispondere: per lui potrebbe farlo benissimo un
suo assistente.
Eliminare la componente di dialogo porta a una staticità
dell’intervista, che rimane rigidamente legata alla scaletta iniziale, al
contrario di quanto avviene in un dialogo, dove la risposta a una domanda può
indurne altre di chiarimento o di curiosità, non previste inizialmente. Altre
volte l’intervistato può omettere cose che non reputa interessanti, quando
invece lo sono.
Per effettuare una buon a intervista via e-mail bisogna utilizzare
alcuni accorgimenti: si devono fornire poche domande e queste devono essere
“aperte”, lasciando ampio raggio di risposta; bisogna avvertire l’intervistato
della possibilità di un editing finale
che corregga in parte lo stile, avvicinandolo alla lingua parlata; in ultimo
può essere utile suggerire all’intervistato di aggiungere alle risposte anche
elementi non trattati nelle domande ma da lui ritenute utili ai fini
dell’intervista[91].
c) L’intervista con domande già scritte in precedenza
Un altro tipo di intervista è quella dove il giornalista si presenta
al colloquio con domande scritte, che non modifica nel corso del confronto.
Siamo in presenza di una pratica rischiosa, perché l’intervista deve essere un
colloquio, e quindi una certa risposta può suggerire una domanda diversa da
quella preparata: altrimenti capita che l’intervistato, se è furbo, ne
approfitta (specie in tv) per affermazioni avventate o non documentate, sapendo
che non riceveranno contestazione né replica e neppure una rispettosa richiesta
di precisazione. Ancora peggio se l’autore consegna le domande prima
dell’incontro all’interlocutore che le richiede. Per Furlan “L’intervista
scritta non è una vera intervista, perché non c’è la possibilità di ribattere.
La richiede chi ha paura di fare una figuraccia nel faccia a faccia con il giornalista. Di solito sono le autorità
istituzionali a imporla”.[92] Come
abbiamo già accennato, il giornale a volte subisce la potenza di certi grossi e
preziosi personaggi, i quali non esitano a pretendere che il giornalista gli
presenti per iscritto e per tempo le domande. Ma questa pratica non la si può
nemmeno definire giornalismo.
d)L’autointervista
L’estrema evoluzione della tipologia che abbiamo appena descritto, si
verifica quando l’intervistato fa tutto da solo: sia le domande che le
risposte.
Ne descrive un
gustoso esempio Gian Antonio Stella, a proposito di un incontro con l’ex
presidente della repubblica Giovanni Leone.
“Aggi’ faticato pure pe’ lei”, disse il vecchio Giovanni Leone
allungando sorridente il malloppo di fogli. Lui si era scritto il cappello, lui
le risposte, lui le domande. Con l’immaginario zerbino a chiedere cose tipo: “
a noi che seguiamo con spirito critico ma anche con un filo di speranza (nemici
del tanto peggio tanto meglio) l’andamento della discussione sulla legge
finanziaria, no appare all’orizzonte alcun profilo positivo…”. E lui a
rispondere: “Come al solito voi giornalisti avete centrato un momento di amara
constatazione”.
E giù un diluvio di citazione latine, sottigliezze giuridiche e
articolati pensamenti dottorali con il cronista virtuale che ogni tanto faceva
capolino: “Restiamo colpiti dall’acutezza della sua analisi…” Era
soddisfattissimo, l’ex presidente della Repubblica: mai vista un’intervista
così fedele al suo pensiero. Avesse potuto fare anche il titolo sarebbe stata
perfetta. Potete perciò immaginare il suo stupefatto furore (“Chiamo i
carabinieri! Chiamo i carabinieri!”) quando realizzò che così com’era il
Corriere non gliela avrebbe pubblicata mai e dunque sarebbe stata integrata
dalla chiacchierata registrata.[93]
e)A tu per tu
in conferenza stampa
Abbiamo già
descritto la tecnica di riprodurre in forma di botta e risposta (come se il
colloquio fosse stato a tu per tu) una conferenza stampa. Visto che questa
pratica rientra a buon diritto nel novero delle false interviste, vogliamo darne qui un esempio concreto.
Domenica 7 agosto, sul Corriere della Sera,
troviamo un intervista diretta a Luis Figo, nuovo acquisto dell’Inter, scritta
da Matteo Garioni. Si tratta delle domande e delle risposte della conferenza
stampa del giorno prima, di cui alcuni brani sono già stati trasmessi dalle
televisioni. Ora vengono scritte con i quesiti in neretto. Certo, le domande ci
sono state, le risposte anche: però non è stato un colloquio faccia a faccia
tra Garioni e Figo, bensì un incontro tra il giocatore e la stampa.
Luis Figo, pronto per la nuova sfida?
Ho una grande voglia di fare bene, spero di dare il mio contributo
nei futuri successi dell’Inter.
Obiettivi?
Lavorare duramente per ambientarmi in fretta.
E basta?
Naturalmente voglio vincere tutto con questa maglia. In passato ho
ricevuto grandi soddisfazioni dal calcio, però questa è una nuova tappa della
mia vita: sono convinto che mi regalerà tante gioie.
Come mai ha scelto l’Inter?
Mi sento di essere nato per giocare in questo club, uno tra i più
grandi e prestigiosi al mondo.[94]
f)L’intervista
mancata
È quella che
non si riesce a fare perché l’intervistato si nega. A volte sembra accettarla,
poi rimanda, rimanda ancora, e poi trova una scusa per rifiutare. Oppure il
colloquio avviene ma l’intervistato pretende che nell’intervista vengano
inserite alcune domande e ne vengano eliminate altre. Il giornalista in questi
casi resta irritato, e può vendicarsi divulgando il fatto. Ad esempio, può
riproporre le domande al pubblico, raccontando il motivo della mancata
intervista. Lo fece Enzo Biagi nel 1991, a Rai1, dopo che l’allora Presidente
della repubblica, Francesco Cossiga, cancellò l’incontro all’ultimo istante.
Biagi andò davanti alle telecamere, raccontò
i fatti e lesse al pubblico le sue domande. E Cossiga naturalmente fece una
brutta figura.
In altri casi
l’intervista è mancata perché non è stata pubblicata anche se realmente
avvenuta. Un esempio è il colloquio tra Claudio Sabelli Fioretti e lo scrittore
Ruggero Guarini. L’intervistato, dopo che avvenne l’incontro, diffidò Sabelli
Fioretti dal pubblicarla. Al posto dell’intervista con Guarini, su Corriere
Magazine esce la travagliata storia di questo colloquio. In questo articolo del
Corriere Magazine, è lo stesso Sabelli Fioretti a raccontare la vicenda:
Abbiamo parlato veramente tanto, quattro ore, davanti a due
registratori, un Sony e un Panasonic, e poi si era fatto tardi, giù al
ristorante insieme a moglie e cognata, moglie di un giudice di Palermo. Tutti
felici e contenti. Sbobino, scrivo, gli mando l’intervista perché gli dia
un’occhiata e mi segnali eventuali imprecisioni. Come risposta, mentre il
giornale sta per andare in stampa, ricevo il seguente telegramma: “La diffido
dal pubblicare l’intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e
tendenziosa e comunque non mi ci riconosco. Ruggero Guarini”.[95]
g)L’intervista
a pagamento
Succede anche
che un personaggio conceda l’intervista a patto di essere pagato. “Vladimir Zirinovskij, capo del partito
neofascista russo, non spiaccica verbo ai giornalisti se prima non gli hanno
staccato un assegno. Si giustifica spiegando che “i soldi che i giornali
guadagnano pubblicando la mia intervista sono molti di più di quelli che mi
danno”. Ma non sono soltanto i palloni gonfiati come lui a pretendere di essere
ricompensati. Nei Paesi anglosassoni è abbastanza normale che un esperto
(docente universitario, scienziato o
giornalista) si faccia intervistare a pagamento, perché time is money, il tempo
è denaro. E poi è una questione di professionalità: se non mi pagano, vuol dire
che no valgo nulla. Come sul lavoro, anche nelle interviste il prestigio di una
persona si misura da quanto viene pagata”[96].
Non c’è da stare allegri, se la concessione
delle interviste avviene in cambio di denaro.
h)L’intervista
in ginocchio
Non è giornalismo neppure l’intervista (capita
spesso in ambito politico) in cui il giornalista si limita a porre domande
ovvie e banali, o addirittura concordate, che servono soltanto come espediente
per permettere all’uomo politico di fare un suo comizietto. Sono le interviste
che in gergo vengono chiamate “interviste in ginocchio”.
CAPITOLO 3
L’INTERVISTA E LA TECNICA GIORNALISTICA
Un’intervista
prima di farla, bisogna riuscire ad ottenerla. Spesso è più difficile ottenere
l’assenso del potente all’incontro, piuttosto che tenergli testa durante il
colloquio. Paul Mac Laughlin, tuttavia, invita i giornalisti (soprattutto
quelli alle prime armi) a non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi e alle
difficoltà.
“Non hanno detto di no finché non hanno detto di no”. Se l’orso Yoghi
fosse un giornalista, riassumerebbe così l’atteggiamento necessario per
ottenere un’intervista. In altre parole, non presumere che qualcuno si rifiuti
di parlare con te finché non gliel’hai chiesto. Troppe volte ho visto
ricercatori e intervistatori arrendersi senza nemmeno tentare. “Non c’è modo di
farlo parlare” assicurano. E ne sono talmente convinti che non ci provano
neanche. Invece il folclore giornalistico è pieno di racconti di scoop fatti
semplicemente alzando la cornetta per chiedere un’intervista.
Se il ricercatore di Daybreak, il programma della CBC Radio di
Montreal, non avesse fermamente creduto alla regola di Yoghi, non avrebbe mai
avuto un’intervista con l’Ayatollah
Khomeini, subito dopo la presa inn ostaggio degli americani a Teheran,
nel novembre del 1979. Questo è il racconto di Bob Mc Keown, che all’epoca
conduceva Daybreak.
Il giorno dopo il fatto, Avi Cohen, il nostro ricercatore, propose di
tentare un intervista con l’Ayatollah. Erano le sei del mattino. “Certo Avi”
dicemmo, e non ci pensammo più.
Poco prima che finisse il programma, verso le nove, la luce rossa del
telefono cominciò a lampeggiare, e io chiesi ad Avi, di là dal vetro, chi
avevamo in linea.
“Indovina” disse, con aria trionfante.
“L’ayatollah?”.
“No, ma un tizio che parla inglese ed è seduto davanti
all’’Ayatollah”.
Non aveva fatto altro che telefonare a Teheran, passando per Parigi.
Chiamò per 12 volte finché non pescò una centralinista di Teheran che parlava
il francese. Avi le chiese il numero dell’Ayatollah, ma non era sull’elenco.
Allora chiamò altre 12 volte, finché non pescò un’altra centralinista che
sapeva il francese. Le disse che un
momento prima stava parlando con l’Ayatollah per conto della CBC Radio,
e che era caduta la linea. Se le premeva conservare il posto e non voleva
tirarsi addosso l’ira funesta del capo della rivoluzione islamica, avrebbe
fatto bene a ridargli la linea. La ragazza, impaurita, le dette un numero
telefonico.
Era il numero di una sala dove, secondo la legge islamica,
l’Ayatollah trattava, per qualche ora e una volta la settimana, i problemi che
gli esponevano i rappresentanti dei vari stati islamici. Dopo sette chiamate a
quel numero. Avi ebbe al telefono un funzionario che parlava l’inglese e il
francese.
“Qual è l’opinione dell’Ayatollah sui fatti dell’ambasciata?”, chiese
Avi. “Vuole che glielo chieda? È qui davanti a me”.
Qualche minuto più tardi, con l’aiuto del funzionario che faceva da
interprete, ho avuto la prima intervista con l’Ayatollah dopo la presa in
ostaggio degli a americani[97].
Mai
rinunciare, dunque, prima di aver ottenuto il rifiuto.
L’approccio,
la presentazione, il primo contatto possono
fare la differenza, e rendere l’intervistato più disponibile durante il
confronto. Prima dell’intervista è bene dare delle referenze al personaggio
affinché possa fidarsi, oppure focalizzare i temi a lui più graditi. Quindi
rassicurarli, cercando quel minimo di confidenza necessario a infrangere le
prime barriere difensive di chi abbiamo di fronte.
“La situazione
peggiore, da intervistato, è quella di rendersi conto di parlare e rispondere a una persona che non sa nulla
di te. Quando iniziano dicendo: “Beppe Severgnini, non ha certo bisogno di
presentazioni…”, io invece ribatto: “Mi presenti, mi presenti…” Il più delle
volte usano questa espressione perché non sanno nemmeno cosa faccio, dove
lavoro, cosa ho scritto…”.[98]
A Severgnini è
capitato di essere intervistato da un giornalista impreparato. È un fattore
importante, quello della preparazione all’incontro. Anzi, per Sabelli Fioretti
è l’aspetto determinante:
“Una buona
intervista ha bisogno di molta preparazione. Diciamo almeno un giorno di
lavoro, telefonando agli amici e ai nemici, leggendo tutti i ritagli sul
personaggio, che spesso sono moltissimi, e se c’è qualche libro da leggere
tocca farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza tra una buona e una cattiva intervista”[99].
Informarsi
sulla persona da incontrare richiede tempo e fatica, ma è la condizione
necessaria affinché le domande non siano ovvie e banali; non cadano insomma nel
“già letto, o già sentito”. Più cose si sanno sull’interlocutore, più
intelligenti sono le domande e si può spaziare su più argomenti. Inoltre si può
tenere testa alle eventuali obiezioni e alle contro-argomentazioni di chi si ha
di fronte, senza risultare disinformati o dover accettare passivamente le
dichiarazioni. I dati ottenuti in sede di ricerca, inoltre, possono consentire
di scegliere il filo del discorso che si vuole seguire, le tematiche da
affrontare, le domande da segnarsi, le curiosità da stuzzicare. Per Enzo Magrì
“innanzitutto è necessario preparare le domande leggendo i ritagli di giornale
ed organizzandole secondo un filo che può essere temporale (se invitiamo il
personaggio a parlare della sua vita) oppure logico, e così via. Chiedendo,
informandosi, contestando”[100].
Quindi è
essenziale farsi una cultura sul personaggio: sulla sua vita e i gusti, le sue
idee e le sue antipatie. Questo avviene generalmente attraverso le pratiche di
leggere ritagli di giornali o biografie; visionare spezzoni di programmi
televisivi in cui quel personaggio è protagonista; usare internet e non sottovalutare
la ricchezza delle biblioteche. Successivamente è utile contattare i suoi
nemici: probabilmente confezioneranno domande al veleno o suggeriranno qualche
argomento spinoso.
Tutto questo
lavoro preparatorio può sfociare in qualche appunto da tenere sott’occhio
durante il colloquio, oppure nella scrittura delle domande da porgli: è
un’operazione faticosa ma porta dei risultati importanti. Infatti
l’intervistato apprezza sempre il giornalista che dimostra di conoscerlo bene,
e lo prende più sul serio. Sarà così più stimolato a dare risposte
significative, perché a domanda stupida corrisponde una risposta stupida.
Ovviamente non devono essere sconosciuti al cronista nemmeno l’ambito di lavoro
del personaggio, l’organizzazione dove lavora: non si può intervistare un cuoco
senza sapere nulla di cucina, né parlare con un esperto di bioetica senza
essersi informati sullo sviluppo degli embrioni. Altrimenti si verifica una
situazione di squilibrio, e l’intervistato ne approfitta facilmente per
infarcire le sue risposte di termini tecnico-scientifici per nulla convincenti:
il giornalista non può replicare anche se vorrebbe, perché farebbe la figura
del superficiale o del disinformato.
Oriana
Fallaci, per essere all’altezza dei potenti che andava a intervistare, si
preparava scrupolosamente in ogni minimo dettaglio e non lasciava mai nulla al
caso. La sua personalità battagliera e scontrosa era sostenuta dalla perfetta
conoscenza delle materie di cui parlava con capi di stato, guerriglieri,
generali o presidenti della Repubblica. Senza questa preparazione, e senza la
carica emotiva che si portava dietro, la Fallaci sicuramente non avrebbe
scritto delle “interviste con la storia” così riuscite.
Nel panorama
giornalistico odierno, le interviste di Stefano Lorenzetto si distinguono anche
per la scrupolosa preparazione dell’autore. Tanto che lo scrittore e
giornalista Rino Camilleri, è arrivato a sostenere: “Un’intervista sta tutta
nelle domande: se chi le fa è bravo, allora esce il capolavoro. Ma per essere
bravi a far domande bisogna avere doti naturali, e queste non si imparano.
Bisogna essere acuti e arguti, pronti di
cervello e preparati, impavidi e un po’ cattivelli, cosa che non guasta.
Dovrebbe essere ovvio che, se si vuole intervistare un personaggio, prima si
deve raccogliere quante più informazioni possibile sul suo conto. Ma non vi
enumero le volte che, intervistato al telefono, ho dovuto io spiegare tutto
all’intervistatore, il quale, comandato dal suo direttore di intervistarmi su
un certo argomento, aveva semplicemente alzato il ricevitore senza neanche
preoccuparsi di sapere chi diavolo io fossi. Ebbene, Lorenzetto è il contrario
di tutto ciò: quando ti intervista, attenzione perché è capace di tirarti fuori
anche quello che non diresti al tuo confessore”.
Lo stesso Lorenzetto è stato vittima
dell’impreparazione giornalistica: “In genere vengono a intervistarmi senza
essersi preparati le domande, e allora sussurrano: ‘Mi dica qualcosa’, oppure
chiedono: ‘Di che possiamo parlare?’. Il giornalismo è l’unica professione in
cui il principiante viene mandato allo sbaraglio: in chirurgia cosa potrebbe
accadere?”[101].
Quando scova i
suoi “Tipi italiani”, pubblicati sul Giornale, Lorenzetto si prepara
così: “Preparo delle domande scritte, studio le banche dati, cerco su internet,
contatto le persone che li conoscono, leggo i ritagli di giornale, e do
un’occhiata ai libri che nessuno legge: sono ricchi di fatti e aneddoti,
narrati con dovizia di particolari, ignoti al grande pubblico. A me è capitato
per esempio con il caso dell’Oro di Dongo[102].
Non bisogna scoraggiarsi al pensiero che tutto è già stato scritto: è vero, ma
dentro un racconto organico acquista un nuovo rilievo. Inoltre si possono
riprendere temi lasciati cadere in altre interviste. Molte volte l’intervistato
in realtà non sa che cosa vuol dire, siamo noi a doverlo stimolare. Già
D’Annunzio l’aveva detto: noi non sappiamo mai che cosa vogliamo dire se non
dopo che l’abbiamo detto. Grazie alla preparazione si portano alla luce
contraddizioni che sono state evidenziate
da eventi successivi alla precedente intervista. Così facendo, inoltre, li si
inchioda a cambiamenti d’opinione, è un ottimo stimolo per autodafé,
autoanalisi, richieste di perdono, orgogliose rivendicazione del diritto di
sbagliare”[103].
3.2 L’incontro
con l’intervistato
Dopo aver
ottenuto la concessione dell’intervista, ed aver raggiunto un livello di
preparazione adeguata al personaggio e alle tematiche da affrontare, arriva il
momento dell’incontro faccia a faccia: qui si decide il successo o l’insuccesso
del colloquio, la brillantezza o la banalità dell’intervista.
Il confronto,
ricco di insidie e di trappole, deve essere gestito in maniera professionale
dal giornalista qualunque sia l’interlocutore e il contesto dell’intervista.
Innanzitutto,
che si tratti di un articolo scritto o di un servizio televisivo trasmesso in
Tv, dall’intervista deve emergere l’intervistato e non l’intervistatore. È
un’osservazione semplice ma a volte trascurata: il giornalista rischia di
pavoneggiarsi nelle interviste, di compiacersi e di schiacciare con la sua
personalità quella dell’interlocutore. Inoltre non è corretto presentarsi con
delle tesi preconcette che poi si vogliono dimostrare a tutti i costi
manipolando le risposte: come dire, intervisto Anna Maria Franzoni per dimostrare che è colpevole di
omicidio, il ministro dell’Economia per dimostrare che è un incompetente,
oppure un musulmano per dimostrare che è un terrorista.
Si può
scegliere la complicità o l’aggressività, ma non si deve cadere negli eccessi
di questi atteggiamenti: la totale accondiscendenza delle interviste in
ginocchio da una parte; l’incalzare irrispettoso di un processo senza tribunale
dall’altra.
Enzo Magrì di
interviste ne ha condotte a centinaia, e individua alcune norme di
comportamento imprescindibili:
“La prima
regola è quella di tenere la distanza tra intervistato e intervistatore. Non
bisogna dare del tu, neanche tra persone che si conoscono bene per non dare
l’impressione che si tratti di una conversazione combinata. Un sospetto,
questo, che subito fa perdere credibilità a tutto quello che contiene
l’intervista.
Il rapporto
deve essere di reciproco rispetto. Non ci deve essere nessuna deferenza
dell’intervistatore nei confronti dell’intervistato, nessuna sufficienza,
nessuna irrisione alle risposte che seguono le domande. Perché, in caso
contrario, quando il lettore scorrerà l’intervista penserà fra sé: ‘Ma se non
ci credi tu a quello che ti dice, perché sei andato a intervistarlo? E perché
ci devo credere io?’.
Il rapporto
deve essere di parità: non bisogna mettersi davanti all’intervistato,
prevaricarlo, né tantomeno mettersi “in ginocchio”. Si deve operare con
saggezza, standogli piuttosto “dietro”, o “accanto”.
La parità deve
apparire poi nel testo dell’intervista, senza cadere a quel bieco malcostume di
alcuni che sono proni al momento dell’incontro e appaiono arroganti, polemici e
tracotanti quando stendono l’intervista. Mentre parlano all’interlocutore,
usano termini come ‘scusi, mi perdoni se ardisco’, ‘ma davvero’, ‘formidabile’.
Invece quando mettono giù l’intervista invece è tutta un’altra musica, e si
legge: ‘ma che diavolo racconta’, ‘non sono assolutamente d’accordo’. Il lettore alla fine lo capisce sempre se
un’intervista è finta”[104].
Il giusto
equilibrio è difficile da raggiungere. Soprattutto l’interlocutore è un uomo
potente: non a caso delle persone importanti si dice che concedono una
intervista. Il ruolo e la posizione occupata dall’intervistato possono influire
sul dialogo.
Furio Colombo
sostiene in proposito:
“L’intervista-ritratto,
o intervista-riflessione con il personaggio di potere dovrebbe essere affidata
– se mai è possibile – soltanto a intervistatori che abbiano un potere (benché
di natura diversa) simile a quello del personaggio intervistato, in modo che
ogni rischio di sottomissione sia evitato”[105].
Anche Beppe
Severgnini non sottovaluta questo punto. Anzi, lo analizza parlando della sua
esperienza.
“L’intervista
è sempre un incontro tra due persone che non deve mai essere sbilanciato, ci
deve essere un rapporto di parità, altrimenti si rischia di essere ostaggio di
chi ti sta davanti. Proprio questo è un punto di forza nelle interviste ai
giornalisti che conduco su Sky. Essendo colleghi non c’è mai uno che sta sul
piedistallo, io le mie domande le faccio sempre a tutti, di destra e di
sinistra, senza rischiare il complesso di inferiorità”.
Una situazione
particolare si verifica quando un personaggio chiede ad una testata o
direttamente al giornalista di essere intervistato. In genere si fa di tutto
per inseguire (spesso a vuoto) determinati personaggi; invece ce ne sono altri
che si offrono spontaneamente. Quando capita, ci si deve chiedere perché questo
avvenga, quali interessi vi siano in gioco e poi, eventualmente, procedere con
l’intervista. In ogni caso il personaggio che vuole essere intervistato deve
essere una persona nota, o importante o autorevole, deve avere qualcosa di
interessante da dire, e deve essere disposta al confronto con l’intervistatore.
E quindi alle sue domande, repliche, argomentazioni, confutazioni.
Claudio
Sabelli Fioretti da cinque anni conduce una serie di interviste settimanali con
protagonisti della politica, cultura e dello spettacolo: i colloqui
inizialmente vertevano sull’abitudine tutta italiana del “trasformismo”, e divennero subito un genere
molto seguito, quasi una moda (che perdura ancora oggi). Tanto che, dopo le
prime interviste di successo, qualcuno chiede al giornalista di essere
intervistato da lui. Nella raccolta delle sue interviste edita da Marsilio,
intitolata Voltagabbana, Sabelli Fioretti racconta questi episodi:
“Ferdinando
Adornato, eletto con Forza Italia e nominato presidente della Commissione
cultura, mi ha telefonato e ha chiesto di intervenire per motivi personali. Non
è l’unico che ha chiesto di intervenire in questa serie di interviste. Alcuni
lo fanno per puro narcisismo, altri perché è in uscita un libro oppure perché
sta cominciando un programma televisivo. Non nascondo che a me fa piacere. È un
indice di gradimento abbastanza buono. Come fanno? Alcuni, timidi, telefonano e
dicono: ‘Molto belle le tue interviste, veramente. Certo, ne avrei di cose da
dire anche io’. Altri, semplicemente, mandano avanti l’agente, l’ufficio
stampa, l’amico. Ma c’è anche chi, più coraggiosamente, mi chiede: ‘Perché non
mi intervisti?’. Adornato appartiene a una quarta categoria, quelli che si
sentono tirati in ballo da altri e chiedono di intervenire per fatto personale”[106].
Quando abbiamo
contattato Sabelli Fioretti, gli abbiamo chiesto qualcosa anche su chi richiede
l’intervista:
Si comporta allo stesso modo con chi chiede di essere intervistato
rispetto a chi contatta lei? Non c'è il
rischio che i primi la usino come megafono?
Cerco di farlo. Ma è inevitabile considerare chi ti ha chiesto
l'intervista con maggiore severità e chi hai contattato con maggiore
indulgenza. In ogni caso quando sospetti che ti stiano usando per qualche
marchetta devi smascherarli.
Dichiarandolo, facendolo
uscire allo scoperto, mettendolo in difficoltà proprio sull'autopromozione,
usando molta ironia[107].
L’autorevolezza
e la credibilità del giornalista, oltre alle sue intervista già condotte in
passato, sono dei buoni deterrenti per evitare di essere strumentalizzati. È un
rischio inevitabile da correre, molto più alto nel giovane reporter alle prime armi che nel
cronista navigato. Con esperienza e professionalità si può evitare la trappola.
Se ci si limita a mettere il microfono davanti alla bocca dell’interlocutore
ponendogli domande vaghe, non precise, si otterranno banalità e pensieri che
faranno comodo a chi si ha di fronte, ma non ai lettori. Certo, non è nemmeno
il caso di fare della dietrologia, durante l’intervista, e chiedersi
continuamente: “Perché ha detto questo?”, “C’è un secondo fine?”, “A chi giova
questa dichiarazione?”. L’esperienza insegna quando diffidare delle
dichiarazioni ottenute.
Il politico
preferirebbe sempre avere di fronte un megafono e non una coscienza critica, e
quando intravede la possibilità, è naturale che cerchi di strumentalizzare
l’intervistatore per svariati motivi: perché vuole far arrivare un messaggio a
qualche altro leader, per rinvigorire la sua immagine pubblica, per falsificare
la realtà, per una marchetta.
È da evitare a
tutti i costi l’atteggiamento leccapiedi che suscita nell’altro l’idea che il
giornalista sia pronto a fargli da tappetino, e quindi a scrivere un articolo
sotto dettatura.
Sergio Lepri
condanna senza mezzi termini questa passività, volontaria o involontaria, del
giornalista: “Che intervista è quella del giornalista, specialmente radiofonico
o televisivo, che si limita a porre domande come ‘Qual è il suo pensiero sulla
situazione’ e tutto finisce nella risposta dell’intervistatore?
L’intervistatore è un giornalista oppure un semplice reggitore di microfono?
Un’intervista seria presuppone un rapporto fiduciario tra intervistatore e
intervistato; il risultato sarà tanto più valido quanto più l’intervistato
saprà di poter contare sull’onestà del giornalista nel riportare fedelmente le
parole dette e nel non riportare quelle (capita, a volte) che l’intervistato ha
detto con preghiera di usarle solo per una maggiore conoscenza dei fatti”[108].
Quest’ultima
osservazione è la chiave per il successo di un’intervista: il rapporto di
lealtà che si crea tra i due protagonisti. È come se si stabilisse un
contratto: il cronista promette di
essere professionale nelle domande,
corretto nella trascrizione delle risposte, e di lasciare perdere le
dichiarazioni off-record; in cambio l’intervistato non deve strumentalizzare il
giornalista (ma limitarsi a rispondere alle domande). Il risultato è
l’intervista di successo: una sintesi che arricchisca sia il personaggio che il
giornalista.
L’intervista è un patto d’onore tra due
persone: da una parte chi fa le domande, dall’altra chi risponde. Il risultato
dovrebbe essere una ricostruzione obiettiva del colloquio. Naturalmente ci
possono essere discussioni, scambi polemici, confutazioni, opinioni diverse:
quello che non deve mai mancare è il rispetto reciproco. Gianni Minoli ha definito
questo momento “un gioco psicologico all’ultimo respiro, un vero e proprio
match tra due intelligenze, con un’unica posta in palio: la verità di un’anima”[109].
L’intervista
può assumere i toni del confronto-scontro: un antagonismo al servizio del lettore,
dove il giornalista espone i propri dubbi e le proprie obiezioni in tono
polemico e contrapponendosi al potente di turno. Minoli ha tirato in ballo la
verità: un concetto nobile, utile per indicare l’obiettivo dello scavo
psicologico presente in ogni intervista. Durante il colloquio, il giornalista
deve avere ben presente che il suo ruolo è quello di informare i lettori del
punto di vista dell’intervistato, lasciando ai lettori il giudizio finale sulle
dichiarazioni raccolte. Altrimenti, l’interlocutore diventa soltanto un
pretesto per permettere al cronista di intervistare se stesso, di esibirsi,
facendo risaltare la sua visione delle cose: un classico esempio di pessimo
giornalismo.
Un altro
rischio da tenere presente è la troppa vicinanza tra intervistatore e
intervistato: una familiarità eccessiva può nuocere al colloquio, e falsare il
rapporto tra i due. Non a caso Beppe Severgnini osserva: “L’intervista più
difficile che io abbia mai fatto è stata senza dubbio quella con Indro
Montanelli: mi sembrava quasi incestuosa. È stata veramente dura a livello
psicologico, perché avevo davanti una persona che conoscevo benissimo, colui
che mi ha iniziato al giornalismo, il mio direttore per quindici anni, allo
stesso tempo maestro e collega. Una vera tortura”[110].
Paul Mc
Laughlin ha individuato alcune regole che riassumono le “ragioni”
dell’intervistato e quelle dell’intervistatore.
Le ragioni dell’intervistatore
a)Potete avere una scarsa preparazione tecnico-scientifica e quindi
sentirvi intimiditi dall’esperto e dall’argomento
b) Potete avere un’istruzione e un titolo di studio inferiore
all’esperto, che avrà anche un ufficio, una segretaria e un ottimo stipendio,
tutti simboli di potere che voi non avete
c) Potete pensare che gli esperti governativi non siano propensi a
dire la verità
d) Potete aver già deciso cosa scrivere
e)Potete essere nervosi o imbarazzati ad ammettere la vostra
ignoranza sull’argomento, nella convinzione che per mantenere il controllo
della situazione sia meglio fingere di capire
f) Potete interpretare le risposte dell’intervistato come tentativi
diretti ad allontanarvi dalla verità
g) Potete avere una scadenza immediata, che consiglia di presentarsi
e raccogliere al più presto qualche informazione senza andare troppo per il
sottile
Le ragioni dell’intervistato:
a)Può avere una tremenda paura di presentarsi in pubblico e di essere
inchiodato a una registrazione
b)Può essere stato invitato dal superiore a non dire ai media
informazioni compromettenti
c)Può pensare che i media siano interessati solo alle storie negative
e a presentare i personaggi sotto la peggiore luce possibile
d)Può considerare squalificante parlare con uno meno istruito di lui
e comunque senza una competenza specifica, tanto da essere costretto a spiegare
le cose in maniera elementarissima
e)Può temere di essere preso in giro dai colleghi per aver concesso
un’intervista a un giornalista qualsiasi, e può non aver alcuno interesse a
fornire informazioni per un pubblico che probabilmente non capirà una sola
parola
f)Può rendersi conto che il giornalista non ha afferrato l’argomento,
senza poter fare niente per rimediare
g)Può essere così ostile o reticente da non dare informazioni
importanti[111]
Nel suo
manuale, Alberto Papuzzi descrive il criterio che regola la scelta delle
domande di un’intervista. “L’oggetto dell’intervista può essere o uno specifico
argomento, di cui l’intervistato è esperto o su cui è un testimone
privilegiato, o la personalità dell’intervistato, le sue vicende, le sue
attività, una sua esperienza. Chiameremo tematica la prima intervista, personale
la seconda. Nell’intervista tematica si procede con domande precise e
reiterate, che non lasciano spazio a risposte generiche. Nell’intervista
personale, l’intervistatore deve riuscire a catturare la fiducia
dell’intervistato, per cui si parte da domande semplici, che possono riguardare
i luoghi in cui una persona ha vissuto, le persone che hanno contato e contano
nella sua vita, le sue preferenze artistiche, i suoi gusti, il significato che
attribuisce a esperienze comuni. Siamo di fronte a due modi diversi se non
opposti di condurre un’intervista: nel primo caso l’intervistato deve essere
ricondotto continuamente e ostinatamente nel tema centrale, nel secondo caso è meglio
non interromperlo”[112].
Queste
considerazioni fanno luce sul complesso tema delle domande. Questa prima divisione (tra intervista
tematica o personale) è un buon punto di partenza. Fermo restando che a domanda
sciocca si otterrà sempre una risposta sciocca; viceversa una domanda
intelligente otterrà una risposta interessante.
I primi attimi
del colloquio non sono mai riservati alle domande più impertinenti. Addirittura Mario Furlan sostiene che “le
prime domande sono da buttare via. Servono solo a rompere il ghiaccio, a
tranquillizzare. Intervistando un segretario di partito non possiamo cominciare
con: ‘Ma è vero che i sondaggi vi danno in crollo verticale?’, bensì ci
soffermeremo sull’importanza degli ideali del suo partito. Se abbiamo di fronte
il ministro delle Finanze, non ci conviene parlare subito delle contestazioni
sindacali, bensì dei buoni dati economici. Superata la fase iniziale, le
domande si fanno più precise. Il giornalista esperto sa sin dall’inizio quali
affermazioni può strappare; ma si avvicina alla risposta voluta per piccoli
passi. Come un’aquila, vola sopra la preda disegnando ampi cerchi, stringendo
via via la traiettoria e calandosi, poco per volta, sempre più su di lei”[113].
In ogni
colloquio c’è sempre un fuoco centrale che è la ragione che lo rende
importante, che ne fa un pezzo da pubblicare. Attorno a questo fuoco,
l’intervistatore deve scavare, finché non viene alla luce la risposta
interessante oppure si capisce che è meglio lasciar perdere.
Durante il
dialogo c’è sempre un minimo di tensione: l’intervistato ha paura che lo si
spremi troppo, l’intervistatore di non spremere abbastanza.
Abbiamo già
notato come all’Europeo di Giglio, le domande dovevano riuscire a far
dire all’intervistato quello che avrebbe detto se fosse stato capace di dirlo.
“Bisognava indurre l’intervistato ad esprimere tutto il suo pensiero –
puntualizza Magrì - e se non ce la si
faceva era necessario aiutarlo nel senso di scavare con domande acconce
nella sua intelligenza per ricavarne tutto il suo pensiero. L’impegno era
quello di estrarre dal personaggio insieme con il suo profilo culturale la sua
filosofia, e cercare in lui quanto ci fosse di particolare. Parlo ovviamente
delle interviste a tutto campo: una sorta di autoritratto in cui il personaggio
si tratteggia e si disegna con l’aiuto dell’intervistatore che gli presta gli
strumenti. Per questo motivo era necessario far rilevare i tic, le fisime, il
periodare, l’intercalare: da tutta questa serie di elementi veniva fuori il
carattere e la personalità. È evidente che se si intervista una persona nota di
cui si conosce tutto, nessuna domanda va posta su fatti, eventi ed episodi di
cui la gente sa. Insomma, non ci si fa ripetere la sua vita. A volte, infatti,
assistiamo in televisione all’insofferenza di certi personaggi ormai noti che
sbuffano quando il telecronista gli pone domande le cui risposte sono scontate
e risapute da tutti. C’è però un sistema per riprodurre quegli eventi in un
altro modo a pro della gente che non li conosce: leggendo la sua biografia, i
ritagli con il suo background ci si appunta quelle parti che necessitano di
spiegazioni, i risvolti poco noti. Al momento di porre la domanda si riassume
l’evento noto per farlo conoscere anche al lettore che non lo conosce (magari è
uno solo ma bisogna rispettarlo perché ha comprato il giornale). In questo caso
si fanno due cose utili: si rende noto al lettore che non lo conosce il fatto,
e si fornisce la spiegazione su un fatto poco noto a qualcuno”[114].
Un punto
fondamentale, che influisce nella formulazione delle domande, è la capacità di
ascoltare. Non esiste un buon intervistatore che non sappia ascoltare: ogni
domanda deve essere la diretta conseguenza della risposta precedente. Uno
schema di domande si deve preparare, ma è bene fare attenzione alle risposte
ottenute, perché in qualsiasi momento potrebbe essere necessario ribaltare
tutto. Severgnini lo sostiene chiaramente: “È
necessario segnarsi le domande da fare, costruirsi una scaletta che si
deve essere pronti ad abbandonare in qualsiasi momento se le risposte lo
richiedono. La cosa peggiore è voler rispettare a tutti i costi l’elenco delle
domande, qualsiasi cosa dica l’intervistato. Qualcuno è talmente concentrato
sulla prossima domanda che non sta nemmeno ad ascoltare il contenuto delle risposte.
Al contrario, bisogna essere elastici e attenti a cogliere ogni sfumatura nelle
risposte: stare pronti a deviare l’intervista su un tema nuovo e sfruttare le
dichiarazioni per la domanda successiva”[115].
In tutte le
interviste si arriva prima o poi al momento più caldo, dove si fanno le domande
più scomode e più impegnative. A questo punto si può incappare nella reticenza
o diffidenza dell’intervistato, il quale non vuole rispondere, oppure diventa
elusivo, sfuggente. Claudio Sabelli Fioretti reagisce così: “Quando vedo
l’intervistato in difficoltà bisogna cambiare argomento. Per poi tornarci in
seguito. Comunque io uso la complicità: l’intervistato mi deve credere dalla
sua parte. Per litigare c’è sempre tempo”[116].
Non bisogna
mollare l’osso, ma neppure farne una questione di vita o di morte. L’importante
è che le domande siano poste correttamente, in maniera chiara. In proposito,
Sergio Lepri mette in guardia da una scorrettezza: “Un tipo di tecnica
truffaldina è quello che gli inglesi chiamano: ‘Ha smesso di picchiare sua
moglie?’. L’intervistato, non aspettandosi una domanda così fuori regola e
fuori tema, cade dalle nuvole e, spesso imbarazzato, risponde che no, non ha
mai picchiato sua moglie. Domanda e risposta sufficienti perché
l’intervistatore scriva (e qualche volta ci fa addirittura il titolo): ‘Tizio
smentisce di aver mai picchiato sua moglie’”[117].
Poche pagine
fa abbiamo già sottolineato l’importanza di fare domande precise, e non vaghe.
Aggiungiamo qui un'altra osservazione: la domanda migliore è quella che
contiene informazioni, fatti, contestazioni. Così risulta più interessante e
apre più sentieri possibili da seguire durante le domande successive.
Stefano
Lorenzetto ci svela le indicazioni che lui segue per formulare le domande:
“Non dobbiamo
aver paura di affrontare, in qualsiasi intervista, gli argomenti forti, quelli
che riguardano il destino ultimo dell’uomo: gli affetti, la morte, e il
soprannaturale”[118]. E
qui snocciola due esempi calzanti: il primo è tratto dall’intervista con
Alessio Vinci, reporter italiano di successo della CNN.
Ha rimpianti?
Ho fatto fallire il mio matrimonio. Nel
’96 avevo sposato una ragazza di Brunico. Era venuta a stare con me a Berlino.
Nel ’99 ci siamo separati.
Come mai?
Ho dedicato più tempo al lavoro che alla
famiglia.
Avete figli?
No. I giornalisti vivono in un mondo parallelo: frequentano solo
giornalisti, parlano solo di giornalisti. Sono fuori dalla realtà. A volte mi
chiedo: un giorno chi mi terrà compagnia? I miei articoli?
Il secondo è tratto dal colloquio con Vittorio Staudacher:
Non ha paura dei fantasmi
di Castel Ivano?
I fantasmi sono dentro gli uomini, non fuori. La gente che ha abitato
qui ha creduto di vederli per suggestione. Purtroppo i morti sono morti.
L’epoca dei fantasmi è finita. Guarita. Gli unici fantasmi che ancora rimangono
sono la ricerca della ricchezza e del benessere.
È vietato aspirare al
benessere?
«Il benessere è la fata
morgana. Un individuo può star bene solo quando perde completamente la capacità
di critica. Siamo dentro la moltitudine di uomini che abitano la Terra. Come si
fa a non partecipare al pathos universale? Ecco perché l’individuo non
starà mai bene. Dovrei essere privo di sensibilità per non pensare a tutti i
miei simili che patiscono».
Se non ha paura dei
fantasmi, di che cos’ha paura?
Di morire. Lei no? Viviamo
immersi in un pianeta di paure: paura di mangiare, paura di respirare, paura di
brutti incontri, paura di essere sfruttati. Ma è merito della paura se
riusciamo a difenderci dal male. Siamo rimasti uomini primitivi. È difficile
avere un’idea di quanto l’uomo sia primitivo. Castel Ivano nell’ultima guerra
mondiale fu soggetto all’occupazione militare. Lei pensa che i soldati si siano
accontentati di spinare il vino dalle botti? No, sparavano un colpo di pistola
e si abbeveravano allo zampillo, il resto per terra. Parlo di soldati italiani,
eh. Non tedeschi o Alleati.
Dopo la morte che cosa
c’è?
Il nulla. Con una
partecipazione armoniosa all’energia che muove il sole e le stelle.
Lorenzetto descrive i temi che si devono
toccare nell’intervista a tutto campo:
“Dobbiamo sempre avere presente che siamo
un impasto di bene e male, raziocinio e follia, miseria e nobiltà: l’intervista
si gioca su questi registri, come la vita: il dolce e l’amaro; il caldo e il
freddo; il giusto e sbagliato; il buono e il cattivo; l’alto e il basso”[119].
Qui sta il segreto della
profondità delle intreviste-ritratto di Lorenzetto: nell’impianto narrativo
capace di scandagliare ciò che di più nascosto c’è nel cuore delle persone da
lui intervistate. Come in questo brano tratto dall’intervista con Luciano
Lutrig:
È stato nel
gennaio 1991, proprio qui sotto casa. Io ero andato a Milano a consegnare due
quadri. Qualcuno aveva lanciato un filo di ferro a cavallo della linea
dell’alta tensione. Mirko ci è passato sotto in bici con i suoi amici. Era il
primo della fila. Una scarica da 15mila volt, morto sul colpo. Al ritorno ho
trovato un posto di blocco dei carabinieri: "Signor Lutring, vada subito
all’ospedale di Arona. Suo figlio sta male". Mi hanno accompagnato
all’obitorio. Ho tirato su il lenzuolo, era già freddo, pòer fiolett.
Volevo gridarci: "Mirko, svegliati, torniamo a casa. Dai, basta scherzare.
Sono Luciano, il tuo papà". Dodici anni aveva.
Mi
dispiace...
Per me era
più di un figlio. Il mio miglior amico. C’è stato un periodo nero, non vendevo
una tela. Passavo le notti in cucina a bere. Lui si alzava dal letto, veniva a
sedersi vicino, mi prendeva la mano e mi fissava dritto negli occhi senza dire
una parola. Un ometto.
Capisco...
La settimana scorsa in chiesa c’è stata la festa dei ragazzi della sua classe. Reggevano un lenzuolo con sopra disegnato un grande cuore e dentro c’era scritto "Mirko". "Oggi ne manca uno solo", ha detto il parroco. Il vescovo mi ha chiamato per nome: "C’è qui il papà, il signor Lutring". Io avevo una gran voglia di piangere, stringevo i denti per non far scendere le lacrime. Tutti piangevano e io no.
Poteva
lasciarsi andare.
Lo so, ma ho questa fama di duro da difendere...
Guardi, uno stronzo, ecco cosa sono. Ho perso un figlio, eppure lì in chiesa ne
avevo 19. Fuori da messa, non ce l’ho fatta più a trattenermi. Le mie gemelline
si sono spaventate: "Papà, perché piangi? Ti senti male?". E io:
"Ma no, mi bruciano soltanto gli occhi, con tutto quell’incenso...".
Ha mai conosciuto uno più pirla di me?
Con sua moglie Flora che cos’è cambiato?
Si riteneva
responsabile della tragedia, non usciva più di casa. Io cercavo di consolarla,
di dirle che non aveva nessuna colpa. Poi si mise a seguire i consigli dello
psichiatra di Antenna 3: "Signora, vada a divertirsi". E così una
sera il cinema, un’altra sera la discoteca con le amiche, un’altra ancora il
pattinaggio. Per un po’ ho portato pazienza. Poi mi sono rotto i ball e
ci ho detto: "Adesso basta". Siamo separati da tre anni. Il giudice
ha assegnato a me le gemelline, perché per loro sono un buon padre.
Alle
sue figlie che cosa ha raccontato di Luciano Lutring?
Hanno 11
anni, ormai sono signorinette. Rappresentano tutto quello che ho, il mio
universo. Fra noi non ci sono segreti. Io ci raccomando: bambine mie,
comportatevi bene, perché la gente magari non aspetta altro che sbagliate voi
per tirare fango addosso a me. Grazie a Dio sono bravissime. Ogni mese metto
via due o tre dipinti, così hanno qualcosa da parte per quando saranno grandi.
Ho letto che gli scarabòcci di Hitler e di Churchill oggi valgono
milioni. Allora c’è qualche speranza anche per i miei quadri. Vorrei rendermi
utile almeno da morto.
Signor
Lutring, che cos’è per lei l’onestà?
Eh, l’onestà!
Una roba astratta, non la vedi, nemmeno nelle persone cosiddette perbene.
Sapesse quante volte fra noi della banda abbiamo litigato per il bottino:
rapinavamo 100 milioni e la radio parlava di 300. Capito i signori banchieri?
Truffavano le assicurazioni. A modo mio credo d’essere stato onesto: spartiva
fino all’ultima lira. Ho mai ciulaa i amis. Perché se mi fossi messo a
fare il ladro anche con i ladri, che razza di uomo sarei stato?.
a) Domande maliziose: l’intervistatore insinua un dubbio,
prova a entrare nelle crepe lasciate dalle risposte precedente, senza usare un
tono diretto ma in modo sottile e provocatorio.
Roberto Gervaso a Bettino Craxi:
Io non gioco: né coi tavoli,
né senza.
Ripeto: non uso tavoli.
Dicono che abbia un
pessimo carattere.
È vero il contrario. Detesto
la stupidità e la perfidia
Dicono anche che sia
privo di carisma.
Può darsi, ma non è a me che
deve chiederlo. Preferisco, comunque, esser approvato o respinto per le mie
idee più che per i miei atteggiamenti[120].
b) Domande implicite: sono osservazioni fatte dal cronista che
suggeriscono una risposta o una considerazione da parte dell’interlocutore. In
chiusura non c’è il punto interrogativo, ma è come se ci fosse.
Daria Gorodisky a Luciano
Violante:
I partiti seri non sono
precipitosi. Noi siamo, a quanto pare, il maggior partito italiano e abbiamo le
responsabilità conseguenti a questo peso[121].
Sabelli Fioretti a Renato
Farina:
Racconta quella notte di
Natale, tu e Silvio da soli, ad Arcore.
Premetto una cosa: io voglio
bene a Berlusconi. C’è un rapporto di amicizia. C’è una certa confidenza. Quel
Natale di due anni fa lui era appena tornato da Roma e mi aveva chiamato verso
le otto di sera per dirmi se volevo passare a trovarlo.
La notte di Natale il
primo ministro telefona a te…
Tutti i Natali ci vediamo per
farci gli auguri. E io gli porto un microregalo. Quella volta gli portai un
salame della Brianza lungo un metro. E lui mi regalò un Cartier.
Ci hai guadagnato.
Lui mi disse: “Domani i
giornali non escono, vero? Allora posso raccontarle”. E mi raccontò di
un’emergenza terrorismo in Vaticano”.
E tu l’hai scritto.
Due giorni dopo. Pensavo
veramente che lui lo volesse[122].
c) Domande scomode: sono fatte per mettere in difficoltà
l’interlocutore, il quale si trova quasi nella situazione dell’interrogato che
risponde alle accuse. È qui che si incalza il personaggio un quesito dopo
l’altro: sono le domande più dure da digerire.
Oriana Fallaci a Henry
Kissinger, L’Europeo, 1972:
Ma non trova che
Schlesinger abbia ragione quando dice che la guerra in Vietnam è riuscita solo a provare come
mezzo milione di americani con tutta la tecnologia fossero incapaci di sconfiggere
uomini male armati e vestiti di un pigiama nero?
Questo è un altro problema. Se è un problema che la guerra in Vietnam
sia stata necessaria, una guerra giusta, piuttosto che… Giudizi del genere
dipendono dalla posizione che uno assume quando il paese è già coinvolto nella
guerra e non resta che da concepire il metodo per tirarlo fuori. Dopo tutto,
ilo mio e il nostro ruolo è stato quello di ridurre sempre di più la misura in
cui l’America era coinvolta nella guerra, per poi finire la guerra. In ultima
analisi, la storia dirà chi ha fatto di più: se coloro che hanno lavorato
criticando e basta o noi che abbiamo tentato di ridurre la guerra e poi
l’abbiamo finita. Sì, il giudizio spetta ai posteri. Quando un paese è
coinvolto in una guerra non basta dire: bisogna finirla. Bisogna finirla con
criterio. E questo è ben diverso dal dire che entrare in quella guerra fu
giusto.[123]
d)Domande generali: abitualmente poste all’inizio
dell’intervista, sono ad ampio raggio e permettono una risposta articolata e completa.
Alain Elkann a Giorgio Bocca:
È cambiato il mestiere
del giornalista?
La scrittura conta molto meno della parola. La tv è dominante. La
gente non solo legge meno, ma più rapidamente. Mio zio, maresciallo di
cavalleria, leggeva tutto ed era sempre in ritardo di due giorni. Il giovedì
finiva il giornale del martedì. Oggi si leggono solo i titoli. Mi ha stupito
che Ceronetti dicesse che i giornali non sono letti perché ci sono troppe cose.
Io penso che ce ne sono meno di una volta. In Algeria ammazzano centinaia di
persone alla volta e ancora non riusciamo a capire il perché[124].
e) Domande particolari: seguono quelle generali, vanno più in profondità e traggono informazioni più complete.
Anna La Rosa a Francesco Cossiga, Libero:
Come è nata la sua passione
per i telefonini?
Come tutte le passioni: nessuno sa come sono nate.
È ancora radioamatore?
Certamente.
Il suo nome?
Italia numero zero fox 800[125].
f) Domande tematiche: chiedono all’ospite un’opinione su un
argomento oppure riguardo un tema di attualità.
Anna La Rosa a Lamberto Dini, Libero:
Parliamo della bufera che
ha travolto la Banca d’Italia. Lei che idea si è fatto?
Io spero che possa tornare la
serenità nella Banca d’Italia e che la sua credibilità possa essere ristabilita
dopo che è stata così scossa dalle Opa sulle nostre banche.[126]
g) Seconde domande: formulate in reazione ad una risposta ottenuta, chiedono uno sforzo
in più all’intervistato per ottenere un particolare in più che approfondisca e
chiarisca la risposta data in precedenza.
Stefano Lorenzetto a Ezio Capizzano:
Oltre
alle donne, che altre passioni ha nella vita?
La politica. Sono stato uno dei fondatori dell’Italia dei valori con Di Pietro. Poi l’ho abbandonato. Nel ’99 mi sono candidato con Prodi. Vedi qua cosa mi scrive, su carta intestata Romano Prodi? “Carissimo Ezio, ho ricevuto la tua cortese lettera e desidero ringraziarti di cuore per le tue osservazioni…” eccetera eccetera. Firmato: “Con tanta amicizia, Romano”.
Di
quali osservazioni si trattava?
Ero suo
consulente gratuito. Un mese prima era stato designato presidente della
Commissione Europea. Senza i miei appunti l’avrebbero cacciato da Bruxelles al
secondo giorno. Ma chi credi che abbia avviato la comunitarizzazione dei
diritti, a cominciare da quello agrario? E il Codice di diritto europeo chi
credi che l’abbia scritto?[127]
h)Domande personali: sono i quesiti sulla vita privata del
personaggio, non mancano mai nelle interviste ritratto.
Sabelli Fioretti ad Anna Falchi:
Ha fatto qualche
plastica?
Avevo il seno asimmetrico. Una
tetta grande e una piccola. Anzi, una abbondante e l’altra non c’era proprio.
Sono asimmetrica. Ho anche il viso storto[128].
i)Domande ironiche: sono fatte per intrattenere il lettore,
per divertirlo. In altri casi sono usate per marcare le distanza dall’interlocutore
attraverso un tono canzonatorio.
Lorenzetto al Divino Otelma, Il
Giornale:
Sicuramente sì. In epoca
augustea facevamo parte dei quindecemviri sacris faciundis, i quindici
sacerdoti custodi dei Libri sibillini.
E prima?
Fummo sacerdote in Atlantide.
E poi faraona.
Finì arrosto?
Molti ignorano che vi furono
nell’antico Egitto faraoni femmina[129].
l)Domande riflessive: riguardano temi complessi e presentano solitamente un’introduzione
dell’intervistatore.
Radio Vaticana a Papa
Ratzinger, Agosto 2005:
La Chiesa poggia su una
saggezza antica, e Lei si trova oggi a incontrare una gioventù che sicuramente
ha tanto entusiasmo, ma in quanto a saggezza ha ancora molta strada da fare…
Come è possibile costruire un ponte tra questa antica saggezza – compresa anche
quella del Papa, che ha una certa età – e la gioventù?
Staremo a vedere quanto il Signore sarà disposto ad aiutarmi, in
questa opera! Comunque, la saggezza non è quella cosa che ha un po’ il sapore
di stantio – in tedesco, a questa parola si associa un po’ anche questo sapore!
In questo senso, credo che parlare, credere e vivere partendo da qualcosa che è
stato donato all’umanità e le ha acceso dei lumi, non sia una pappa pronta
stantia, ma sia invece adeguato proprio alla dinamica della gioventù, che
chiede cose grandi e totali. Ecco cos’è la saggezza della fede: non il fatto di
riconoscere una gran quantità di dettagli, di riconoscere l’essenziale dalla
vita, come essere persona, come costruire il futuro[130].
m) Domande aneddotiche, rievocano
episodi del passato
Sabelli Fioretti a Vittorio Feltri:
Il più grande errore della tua vita?
Tratto gli editori peggio dei giornalisti.
Anche Berlusconi?
Paolo Berlusconi lo tenevo
fuori dalla porta, e lo vedevo passeggiare aspettando che lo ricevessi. Non mi
piace scodinzolare. A Zanussi ho detto: “Meno ti fai vedere nel mio ufficio,
meglio è. Io ad Arcore non sono mai stato. Quando ci fu l’inciucio, feci il
titolo: L’inciucio in diretta”.
Sai che si disse? Che facevate il gioco
delle parti.
Una settimana prima del
decreto salvaladri scrissi che sarebbe stata una stupidaggine devastante.
Tant’è che si diceva “Feltri non dura”. Ma tu lo leggi oggi il Giornale?
Perché nessuno lo critica oggi?[131]
3.4 Registratore e block notes
In
un’intervista televisiva, intervistatore e intervistato sono sempre ripresi da
una telecamera: ogni parola, smorfia, gesto e battito di ciglia dell’ospite
vengono mandati in tempo reale oppure
montati e trasmessi in differita. La presenza delle telecamere dà la
certezza che l’intervistato abbia effettivamente fatto quelle dichiarazioni.
Nelle interviste scritte il giornalista si deve dotare forzatamente di qualche
strumento che lo aiuti a memorizzare le dichiarazioni che ottiene durante il colloquio.
Sono gli
attrezzi del mestiere dell’intervistatore: il registratore e il block notes.
Grazie al primo, si fissano le parole dell’interlocutore per meglio riscriverle
e per scongiurare ogni contestazione futura; con il secondo si prendono gli
appunti essenziali della conversazione per gestire meglio le domande
successive, e per indirizzare il colloquio verso un botta e risposta il più
interessante possibile.
Alberto Papuzzi chiarisce l’importanza del
registratore:
“L’uso del
registratore è una garanzia per non perdere passaggi importanti e per
controllarli al momento della stesura dell’intervista. Nel giornalismo
americano è quasi un obbligo; inoltre consente di essere fedeli, se è il caso,
al modo di esprimersi dell’intervistato”.[132] Si può
paragonare ad una polizza di assicurazione: per ogni malinteso, incomprensione
o contrasto il registratore è una prova inconfutabile.
Naturalmente
obbliga il giornalista ad un lavoro lungo che è quello della sbobinatura.
Mettiamo il caso che il colloquio sia lungo, gli elementi importanti siano
pochi e si debba riscrivere il pezzo subito: in questo caso non c’è il tempo di
ascoltarla tutta, si possono risentire alcuni passaggi delicati, ma gli appunti
dovrebbero bastare per ricostruire il colloquio.
Stefano Lorenzetto
illustra i motivi per cui si usa il
registratore:
“Innanzitutto
consente di prendere appunti durante il colloquio, senza dover per forza
scrivere tutto ciò che viene detto. Poi impedisce eventuali contestazioni:
tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi più sconvenienti o
delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono essere
contestazioni. Senza registratore non si potrebbe scrivere tutto e pensare alla
domanda successiva da fare: il pensiero è sempre più veloce della mano. Infine
è indispensabile verificare d’avere capito bene quando si parla di temi
scientifici e filosofici: lo si può fare solo con il registratore”[133].
Inoltre
bisogna assicurarsi che il registratore funzioni durante tutto il colloquio,
per evitare spiacevoli inconvenienti. “Per evitare che l’apparecchio non
funzioni- dice Enzo Magrì - qualche
giornalista se ne porta addirittura due. La ragione di questa solerzia è
evidente. Si può telefonare all’intervistato per una integrazione
dell’intervista oppure per un chiarimento quando si può. Ma telefonare per dire
che quello che è stato detto è finito nell’aria è fare la figura
dell’imbranato. Senza contare che anche rifacendo l’intervista questa non sarà
mai come è stata raccolta la prima volta, genuina, estemporanea, sugosa.
Anch’io sono
stato vittima del mancato funzionamento del registratore, anch’io sono stato
tradito da un registratore. Era credo il 1973. Il Governo di allora aveva
deciso di mandare al confino nell’isola di Limosa un folto gruppo di mafiosi.
Tra questi c’era Angelo La Barbera, un potente boss che poi è stato assassinato
in carcere. La Barbera era il più riservato di tutti ma dopo una settimana di
mie ‘rispettose’ insistenze, forse per scacciare la noia del confino di polizia
al quale era stato condannato dopo che aveva girato il mondo, mi concesse un’
intervista. Preparai le domande velocemente ma la maggior parte le ho dovuto
improvvisare davanti a lui incalzando le sue interessanti risposte. Avevo un
registratore di quelli di quei tempi: una macchina rettangolare alla quale si
applicava il microfono. Mentre lui parlava e rispondeva ai miei quesiti
fornendo risposte interessanti. io sbirciavo e controllavo se il registratore
funzionava. Funzionava, ma in modo bieco, solo per farmi male, per punirmi,
vile d’un registratore. Finita l’intervista mi preparai velocemente per
prendere la nave, la Vittore Carpaccio
che dall’isola mi avrebbe portato in Sicilia. Se l’avessimo perduta avremmo
dovuto aspettare una settimana visto che il tempo volgeva al brutto. Con me
c’era il bravissimo fotografo Ferdinando Scianna. Salito a bordo della nave che
ci avrebbe sbarcato ad Agrigento, ho aperto il registratore. Non c’era nulla.
Solo silenzio e un lungo terribile fruscio. Non so come, ma la manopola del volume del suono era a zero e di conseguenza
l’apparecchio non aveva registrato
niente di ciò (infanzia palermitana,
viaggi all’estero per un totale di 3000 ore di volo, ‘innocenti’ incontri con amici degli ‘amici’)
che aveva raccontato il mafioso. Fu un una tragedia alla quale si accompagnò il
mare forza otto che faceva andare su e giù la piccola nave. Fortuna che c’era
Ferdinando Scianna. Quando uno intervista, un po’ perchè pensa alla domanda
successiva, un po’ perché è rapito da
particolari del racconto dell’intervistato,
si pensa a molte cose o ci si prepara alla contestazione, a formulare un altro
quesito. Insomma voglio dire che non si coglie appieno tutto quello che l’altro dice. ‘Tanto’, si pensa, ‘è tutto
registrato’. Quella volta non c’era
registrato nulla. Ma in quell’occasione Scianna aveva messo la stessa bravura
con la quale ritrae il mondo anche nel registrare in mente il colloquio tra me
e il mafioso anche per via dello straordinario interesse che le parole del personaggio suscitavano in lui.
Aveva insomma memorizzato gran parte delle risposte. Si, tutte le risposte Cosi
con il suo aiuto, un po’ sulla nave, un po’ nel taxi che da Agrigento ci
portava a Palermo, e un altro po’
sull’aereo che dal capoluogo siciliano volava Milano, riuscii a ricostruire
tutta l’intervista. Alla faccia di quel mascalzone e traditore registratore”[134].
Se si usa il
registratore, si deve fare attenzione alle dichiarazioni off-record, ovvero
quelle frasi che l’intervistato dice ma che non vuole vengano pubblicate. Sono
dette quindi in via confidenziale al giornalista il quale si impegna a non
pubblicarle. A volte si tratta di dichiarazioni scottanti, in altri casi sono
informazioni riservate concesse soltanto per una sua maggiore conoscenza dei
fatti. La lealtà del giornalista esige il rispetto dei patti e quindi la non
pubblicazione di queste dichiarazioni. Anche se Claudio Sabelli Fioretti,
interpellato su questo argomento, ci risponde così:
“Non si deve
scrivere ciò che viene detto off-record. Ma io uso alcuni trucchetti perché
alla fine l’intervistato rilegge. Per esempio scrivo: ‘Le dico una cosa ma non
la deve scrivere. Me lo assicura?’. ‘Certo, ha la mia parola’. E poi scrivo
tutto quello che mi ha detto. Se la cosa lo diverte, spesso, lascia tutto”[135].
L’uso del
registratore è comunque una pratica assodata e diffusissima, però esistono
anche le eccezioni. Il giornalista e autore televisivo Cesare Lanza, ad
esempio, all’inizio della sua intervista alla soubrette Flavia Vento per Corriere
Magazine scrive così:
Cara Flavia Vento, io sono un vecchio cronista affezionato ad
abitudini un po’ antiquate. Le interviste, le faccio senza registratore. Prendo
pochi appunti e in quarant’anni non ho mai avuto una smentita. “Bene”. Non
vorrei cominciare con te, a dover incassare rettifiche[136].
Una
confessione coraggiosa, visto che (quasi) tutti i giornalisti, quando vanno ad
intervistare qualcuno, il registratore lo mettono sempre in valigia.
La maggior
parte degli intervistatori (ma non tutti, come abbiamo appena visto), usa
durante i colloqui un registratore, in
modo tale da non dover trascrivere tutto ciò che dice l’interlocutore perché le
parole sono già memorizzate dall’apparecchio. Una volta terminata l’intervista,
il lavoro è quello di riprenderla, sbobinarla, e organizzarla sulla carta. È
un’operazione delicata e decisiva al pari della preparazione o della
formulazione delle domande. Infatti, il giornalista deve sempre fare un lavoro
di selezione del materiale, e riuscire a trasmettere con le parole tutti gli
elementi caratterizzanti l’incontro (il tono, la distanza, le pause, la
vivacità, il ritmo). Ovviamente non ci si deve limitare ad una pura
trascrizione del linguaggio parlato sulla pagina bianca: il risultato sarebbe
un brano illeggibile, pieno di pause, mugugni, mezze frasi, errori grammaticali
e nella costruzione dei tempi.
“Uno parla
come mangia, non come un libro stampato – spiega Stefano Lorenzetto - A me è
capitato recentemente di rileggere sulla carta il mio parlato: ho concesso
un’intervista alla fondazione di Don Benzi, e loro hanno sbobinato e trascritto
tale e quale. Il risultato è illeggibile, perché quando parli vai a braccio, ti
fermi, riprendi, e anche la consecutio temporum è diversa”[137].
Dunque, per
forza di cose è necessario rielaborare. Ma come? Enzo Magrì prova a dare
qualche indicazione utile:
“L’intervista risponde alle stesse regole
di un articolo. Ha bisogna di un lead interessante che prenda per la manica il
lettore e se lo trascini dietro senza dargli motivo di distrarsi” - ripete
Magrì – “Per questo uno dei sistemi più utilizzati all’Europeo era quello di
cominciare con tre domande secche in sequenza”[138].
Un’altra possibilità, molto gettonata, è quella di mettere all’inizio del pezzo
le dichiarazioni più forti e importanti dell’intervista, che poi verranno
approfondite nel pezzo. Vediamo un esempio concreto. Si tratta di un’intervista
del vicedirettore del Corriere della Sera Dario Di Vico a Francesco
Rutelli:
“Sul caso Fazio i Ds hanno
maturato seppur con qualche ritardo una posizione più chiara e libera da
condizionamenti, spero che accada lo stesso per la scalata Unipol alla Bnl”. Il
leader della margherita Francesco Rutelli è stato tra i primi a sostenere come
dietro alle manovre dei concertisti ci fosse la mano della destra, e accetta
ora di commentare le novità delle ultime intercettazioni telefoniche[139].
Nelle interviste-ritratto, invece, i
giornalisti migliori usano con abilità la penna per tratteggiare un quadro del
personaggio che descriva l’uomo, la sua psicologia. Gli elementi importanti, in
proposito, possono essere quelli di colore (i vestiti, l’arredamento della
casa, i movimenti, lo sguardo), il suo stato d’animo, il suo approccio
all’intervista.
Roberto Gervaso, ad esempio, è un maestro
nel descrivere con poche pennellate iniziali il personaggio che ha di fronte:
introduce sempre il lettore all’intervista con un lead accattivante e
brillante. Vediamo come comincia il pezzo che riporta il suo colloquio con la
scrittrice di romanzi rosa Liala:
“Alla soglia del secolo,
Amalia Lyana Negretti Odescalchi è più viva e vegeta che mai.
Un sottile cammeo d’argento,
una leggenda crepuscolare, una delicata statuina, che sembra uscita dalla penna
di un antico miniaturista o di un poeta demodè.
Seduta su una vecchia poltrona,
in un salotto squisito e silenzioso, nobilitato da ritratti d’antenati
impassibili e arcigni, la regina del romanzo d’amore, che ha fatto sognare,
piangere, fantasticare milioni di donne, rievoca piccoli e grandi fasti del
passato.
È ormai fragile monumento di
marmo rosa, come la cappella che ne custodirà le ceneri.
Nel suo tailleur blu, firmato Valentino, su una camicetta di seta bianca dal colletto alla coreana, ingentilito da valenciennes di candido pizzo, Liala, con un filo di voce, parla di sé e dei suoi amori. Parla e si accarezza le mani, affusolate e tatuate di efelidi, che ogni tanto sfiorano il volto perfetto, assorto, un po’ stanco.
Gli occhi, di una luminosità
acquosa, fissano orizzonti lontani, attingendo a un fantastico scrigno di ricordi
mai sopiti o sepolti”[140].
Un inizio così non sfigurerebbe in un
romanzo d’autore: dopo queste prime righe così graziose viene spontaneo
proseguire nella lettura e bersi l’intervista tutta in un sorso.
D’altro canto, il prologo dell’intervista
serve anche a introdurre l’argomento di
cui si parla con un breve riassunto, e a dare l’ambientazione del colloquio.
Seguendo possibilmente la lezione di Indro Montanelli: “Se mi prendo il lettore
nelle prime righe, non mi molla più”. Questo avviene soprattutto se l’intervista
riguarda temi di non immediata comprensione.
La scelta delle righe di apertura deriva
sempre dall’accurato lavoro di selezione del materiale. La durata reale delle
interviste infatti, spesso raggiunge le
tre o le quattro ore: nel “taglia e cuci”
capita la sequenza delle domande viene spesso scombinata. Non sempre nella
riscrittura coincide con l’ordine con
cui si è svolta nel colloquio orale. “Se abbiamo seguito il filo temporale o
anche quello logico relativo all’argomento” - spiega Magrì - “durante il
colloquio si registrano comunque digressioni, divagazioni, elusioni, pause
fatte dal personaggio. Oppure evocazioni, che naturalmente non devono essere
buttate via, eliminate, bensì recuperate, collocate in altre parte del pezzo e
sapientemente utilizzate dal giornalista.”[141] La
fluidità e scorrevolezza dell’articolo prevale dunque sulla riproduzione
letterale dell’incontro.
Quando si sbobina un’intervista, il
problema principale è quello della
fedeltà del linguaggio. Abbiamo già sottolineato che non bisogna
trascrivere integralmente tutte le parole effettivamente dette: Gian Antonio
Stella sostiene che un’intervista scritta
deve, in certi casi, essere infedele rispetto al colloquio orale.
“L’intervista migliore non sempre è la più fedele. È obbligatorio tagliare, pulire, cambiare, cucire. Finché il prodotto finale, magari stravolto rispetto alla frase letterale, non riuscirà a raggiungere due obiettivi: permettere all’intervistato di riconoscersi e al lettore di capire. La verità è che una buona intervista, piaccia o non piaccia a certi vertici politici che non hanno mai letto Oscar Wilde (‘Il tedio è la senilità della serietà’) e pensano stupidamente che la loro statura politica si misuri in righe tipografiche e il loro peso culturale in ampollosità istituzionale, è solo quella che si fa leggere. Quindi delle due l’una: o sta in piedi da sola o va in qualche modo aiutata. Il che non vuol dire affatto inventare le cose. Né raccontare balle.
Vuol dire cucire pazientemente
il tutto seguendo piccoli trucchi. Rompere le frasi troppo lunghe con una
domanda secca. Troncare una risposta evasiva con una cosa qualsiasi tipo:
‘ma…’. Sottolineare la banalità con qualche ironia. Spezzare i ragionamenti
volutamente complicati con una battuta che permetta, come si dice nel calcio,
una ‘ripartenza’. Evitare come la peste ogni attimo di noia. Rifiutare ogni
salamelecco cerimoniale tipo ‘on.’ Oppure ‘eccellenza’ o ancora ‘signor
ministro’: è un’intervista, non una interpellanza e se il lettore sente puzza di servilismo,
addio.
In definitiva: libertà totale
e quasi ‘anarchica’ nelle domande, fedeltà massima possibile nelle risposte.
Senza appiccicare (mai e poi mai!) una parola non detta, ma anche senza
l’incubo della trascrizione letterale. E ricordando sempre che per fare una
buona intervista bisogna essere in due: chi le dà e chi la scrive. E che il
capolavoro è quando uno ti dice ‘bravo’ e tu, rileggendola, non trovi una sola
parola che sia stata riportata esattamente alla lettera”.[142]
Secondo Stella bisogna comporre
un’intervista onesta, non sempre fedele, mai testuale. Umberto Eco, in un articolo della sua rubrica
sull’Espresso “La bustina di Minerva”, esprimeva la sua diffidenza verso
le interviste scritte. Il titolo del suo articolo è eloquente: “Attenti alle interviste,
sono sempre infedeli”. Eco fa l’esempio di una sua intervista-dialogo avvenuta
due mesi prima con Jacqes Le Goff e due giornalisti: una volta pubblicata, il
senso di ciò che aveva detto risultava modificato.
Leggendomi, ad un certo punto ho sentito qualcosa che suonava come falso. Il mio partner aveva parlato su un certo argomento, poi mi era stato chiesto che cosa ne pensassi io. La mia risposta inizia con “Sono più o meno d’accordo con Le Goff” e poi via a dire la mia. Da come la dicevo, emergeva che ero perfettamente d’accordo, salvo che aggiungevo qualche commento. Eppure le formule retoriche hanno il loro valore. Dopo “sono più o meno d’accordo..” ci si attende un “ma” e poi una netta affermazione del contrario. (…) Ridotta a poche righe apodittiche, quella forma dubitativa (si può essere apoditticamente dubitativo?), alludeva, lasciava intravedere una volontà polemica. Perché faccio questo esempio, in sé trascurabile? Perché ci dice quale sia la dinamica dell’intervista, per bene che sia condotta meglio, si lascia parlare l’intervistato, si tagliano i tempi morti, e si cerca di dare forma all’informe.
La forma, condizione di
perfezione, rende il dialogo imperfetto, fatalmente infedele. Quando ho riletto
l’intervista prima della pubblicazione avrei potuto tagliare quel “più o meno”,
eppure non l’avevo fatto perché suonava bene, rendeva la mia entrata un pochino
più lenta e prudente. Ma una volta stampato aveva cambiato segno. È l’eterno
problema di quanto i media riescano a rappresentare la realtà[143].
È difficile trovare per il giornalista il
giusto confine della rielaborazione legittima.
Quando l’interlocutore inframezza le sue
dichiarazioni con espressioni pleonastiche, giri di parole, battute, un intervento a posteriori è obbligatorio per rendere scorrevole
l’intervista.
Se dice ad esempio: “Massì, in fondo in
fondo ritengo che potrebbe essere utile, per il bene del mio partito e di tutto
ciò che rappresenta agli occhi dell’opinione pubblica, stipulare un’alleanza
elettorale con le forze migliori del centro moderato”, si riporta, senza tante
parole inutili, “Un’alleanza con il centro moderato sarebbe utile al mio
partito”.
Indro Montanelli sosteneva che la
dichiarazione non deve essere necessariamente vera, ma verosimile. In altre
parole, non è necessario riportare qualcosa che è stato detto dal personaggio,
ma qualcosa che gli assomiglia. L’interpretazione del cronista si deve fermare
alla forma delle parole, senza investire il senso delle dichiarazioni:
quest’ultimo non deve mai essere travisato, anche se basta pochissimo per
modificarlo. Mario Furlan fa un esempio calzante: “Domandate a un politico se
crede nella centralità del servizio televisivo pubblico (cioè della Rai). I
politici tendono a non sbilanciarsi, quindi vi potrà rispondere così: ‘Credo
che la Rai debba conservare una posizione di rilievo, ma le altre emittenti non
devono venire penalizzate’. Se riporto la prima parte della frase – ‘Credo che
la Rai debba conservare una posizione di rilievo’ – il politico fa la figura
dello statalista nemico delle televisioni private; se riporto la seconda parte
– ‘Le altre emittenti non devono venire penalizzate’ – sembra un paladino della
Tv commerciale, un uomo di Berlusconi. Il risultato – fargli dire quello che
volevo – è stato ottenuto senza modificare una virgola, ma semplicemente
saltando qualche passo. E di fronte a una contestazione il giornalista
potrà replicare, sia pure con una bella
faccia tosta, che ha riportato “le testuali parole”.[144]
D’altro canto, c’è tra i cronisti chi
preferisce limitare al minimo possibile l’intervento giornalistico di “taglia e
cuci”. Come Claudio Sabelli Fioretti: “Io non uso riscrivere l’intervista.
Prendo lo sbobinato, che generalmente è di circa 140mila battute, e lo porto a
12mila buttate attraverso successivi passaggi durante i quali tolgo le
ripetizioni e chiacchiere inutilizzabili. Alla fine l’intervistato si riconosce
perché io non ho usato parole e costruzioni mie bensì quelle sue autentiche.
Per fare questo è indispensabile registrare. Quando si prendono appunti è
inevitabile tradire il pensiero dell’intervistato”[145].
Una sintesi apprezzabile è quella di
Papuzzi: “Nell’intervista personale, può essere importante il modo di
esprimersi dell’intervistato, come un aspetto della sua personalità: non si tratta
di usare il cosiddetto parlato, cioè l’andirivieni delle singole parole – che
ha uno scarso valore giornalistico e rappresenta piuttosto una coloritura
letteraria – bensì di riprodurre la struttura linguistica che caratterizza il
modo di parlare dell’intervistato. Le domande devono essere sintetiche, le
risposte non troppo lunghe, o solo alcune lunghe. Se necessario possono essere
interrotte con delle domande interlocutorie, inserite a posteriori. La forma
dialogata deve avere un suo ritmo. Naturalmente ci sono stili diversi, da
adattare alle esigenze del caso e del giornale.
Secondo gli intervistati e le circostanze, il tono del dialogo può
essere colloquiale e amabile, asciutto e incisivo, incalzante e aggressivo”[146].
Queste considerazioni ci portano dritti ad
un altro nodo: come riportare il linguaggio dell’intervistato? Non sempre gli
interlocutori sanno esprimere i concetti in modo chiaro nelle risposte; in
alcuni casi divagano, non centrano l’argomento, danno risposte dispersive.
L’Italia, tra l’altro, risente di un alto tasso di analfabetismo: non è
difficile trovare persone che fanno fatica ad esprimersi in un italiano di
senso compiuto, oppure commettono svarioni grammaticali e nell’uso dei tempi
verbali. In questi casi il giornalista deve cercare di rendere le risposte
chiare e scorrevoli, modificandole il tanto che basta. Senza trasformare un
agricoltore in Shakespeare, costruendo a posteriori uno stile troppo elevato,
per nulla corrispondente alla realtà. “In linea di massima, conviene sempre cercare
di far fare bella figura all’intervistato”, mette in guardia Stefano
Lorenzetto.
Enzo Magrì riassume quest’ultimo punto
così: “Generalmente il modo di esprimersi dell’intervistato è abbastanza
appropriato, colto, il suo periodare è corretto, i concetti che espone sono
chiari. Ma altrettanto frequentemente capita che il linguaggio sia zoppicante,
le sue frasi smozzicate ed i concetti manifestati male. Allora è necessario
intervenire per rendere, senza travisarne il pensiero, il linguaggio di buon tono,
il periodare corretto, i concetti completi. Il tutto naturalmente per rendere
un servizio al lettore il quale certamente si rifiuterebbe di leggere una cosa
banale, mal scritta e volterebbe pagina. A volte, invece, per marcare il
carattere dell’intervistato, per evidenziarne la personalità, i tic e le manie,
basta mettere giù l’intervista così come è stata concessa. Usando il linguaggio
dell’intervistato. Di questo tipo di intervista ne fece le spese per esempio
Helenio Herrera. Intervistato dalla Fallaci, il grande allenatore dell’Inter
parlava un italiano sottoposto alla grammatica spagnola con termini che non
appartenevano né all’una né all’altra lingua bensì alla fantasia di quel
celebre argentino. La Fallaci riportò integralmente il suo linguaggio maccheronico
e spagnoleggiante: ne venne fuori un pezzo spassosissimo che diede inizio ad
una serie”.[147]
Altri fattori da tenere in considerazioni
sono le espressioni letterali, che conferiscono musicalità, hanno una loro
forza intrinseca e vanno riportate precisamente e con le pause; il dialetto
dell’interlocutore; l’iterazione di imprecazioni o refrain.
A questo riguardo, Stefano Lorenzetto
nell’intervista con l’attore Remo Remotti ha sostituito le numerose parolacce
dell’intervistato con un (bip). L’effetto risulta comico e azzeccato:
Giunto a 77 anni, mi ritengo
una persona illuminata, saggia, equilibrata, che ama Dio e le donne. Ora non
sono matto manco p’er (bip).
Anche se resta un maniaco
sessuale,
Ma de sinistra, non come
quella testa de (bip) di D’Annunzio, che era malato e alle donne je
faceva male (…)
Quindi adesso che cos’è?
Da vent’anni
prego e faccio meditazione. Seguo Gurdjieff, Osho, Rudolf Steiner, Sai Baba,
che t’insegnano ad amare il prossimo e a stare in pace.
(Volge
lo sguardo verso un televisore: è in onda il Tg1)
Guarda
quelli. Ma chi so’? Islamici? Ma che (bip) stanno a fa’? Ma che (bip)
è? Palestina?.
Afghanistan.
Senti, dimme ’na cosa: me
trovi molto strano?[148]
3.6 Far rileggere l’intervista?
Gli intervistatori della carta stampata si
differenziano anche dal loro comportamento una volta terminata la trascrizione
del dialogo. Da una parte, ci sono quelli che fanno rileggere l’intervista
all’interlocutore prima della pubblicazione. Al contrario, molti cronisti
mandano l’articolo direttamente in stampa senza alcun controllo da parte
dell’intervistato. Su questo punto vi sono due autorevoli scuole di pensiero,
entrambe con delle buone ragioni. La differenza sta nella sensibilità del
singolo giornalista: quella di far rileggere il pezzo è una scelta personale, e
di solito non compromette la riuscita dell’intervista.
Alcuni sostengono che la possibilità di
leggere l’intervista predisponga l’interlocutore ad una maggiore disponibilità
e fiducia nel giornalista, ad una maggiore complicità e di conseguenza ad un
intervista più riuscita. Ovviamente le
richieste dell’intervistato devono essere sensate, non devono stravolgere ciò
che effettivamente è stato registrato.
La lealtà deve essere alla base
dell’intervista - pensano invece altri giornalisti - e dunque l’intervistato
deve avere fiducia nella professionalità del giornalista, il quale non deve
sentirsi in dovere di fare un favore all’interlocutore e modificare il pezzo a
seconda delle sue richieste e bizze.
Vediamo le argomentazioni delle due parti,
partendo da Enzo Magrì: “Io sono fra quelli che non consigliano di far
rileggere l’intervista, ma rispetto e capisco anche chi lo fa. Rivedendo quello
che ha detto, l’intervistatore è tentato o di modificarne la stesura alla
ricerca di un linguaggio più elevato di quello che ha usato oralmente oppure di
addolcire certe prese di posizione eliminando espressioni e concetti che
generalmente sono il sugo dell’intervista. La quale in questo modo diventa una
sorta di bla bla bla.
Naturalmente
la lealtà esige il rispetto dei patti intercorsi prima dell’inizio
dell’intervista. Se si promette all’intervistato di fargli leggere l’intervista
una volta che è stata sbobinata, organizzata, stesa e pronta per essere
pubblicata, è giusto sottoporre il lavoro al suo giudizio. Io preferivo non
farla leggere. Partivo dal principio (e lo manifestavo all’interessato qualora
me lo chiedeva) che se uno ha fiducia in me nel darmi l’intervista deve
continuare ad averla anche quando la stendo e la pubblico. Se nutrivo qualche
dubbio sull’interpretazione di un passo, ovviamente era un dovere per me
chiamare al telefono l’interessato e chiarire il passaggio in modo da non
tradire il suo pensiero. Il politico poi richiede sempre di vedere scritto ciò
che ha detto a voce. D’altra parte, se ciò che il personaggio dice è
interessante probabilmente lo sarà anche dopo che egli avrà controllato il
pezzo e tolto qualche eccesso”[149].
Anche Stefano
Lorenzetto si inserisce nel gruppo dei giornalisti che non fanno rileggere le
interviste. “Non faccio mai leggere le
interviste dopo averle fatte perché ho una polizza assicurativa, un asso nella
manica: il registratore. Tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi
più sconvenienti o delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono
essere contestazioni. Se si fa leggere l’intervista, il 99,9% degli
intervistati, soprattutto se occupano qualche posto di potere, la vorrebbe
cambiare. Anche perché nell’arco di quattro ore si dicono tante cose che poi
non si ricordano, uno parla con grande libertà e dice anche cose deliranti. A
rileggersi l’impatto è spesso micidiale, proprio perché lo scritto è diverso
dal parlato. Io non faccio rileggere
mai, evitando che mi chiedano di rileggerla. Mi sembra ingiusto”[150].
L’unico punto d’accordo è l’opportunità di
una rilettura nel caso di passaggi poco chiari o di insicurezze del giornalista
nella trascrizione. Pensate ad un colloquio filosofico o su un tema delicato di politica economica: in quel
caso chiedere dei chiarimenti anche attraverso una rilettura è legittimo. Lo
sostiene anche Umberto Eco, sempre nel suo articolo già citato riguardante un
colloquio con Le Goffe e due giornalisti:
I due giornalisti avevano
fatto un lavoro corretto: avevano registrato il dialogo e l’avevano trascritto con
cura. Quindi, come si fa nei paesi civili, ce l’avevano inviato per il
controllo. Quando un dialogo prende una o due ore, il giornalista è poi
obbligato a tagliare, ridimensionare, eliminare le parentesi inutili e casuali,
e l’intervistato deve controllare che, malgrado questa operazione cosmetica, il
senso delle sue affermazioni sia rimasto più o meno invariato[151].
Chi però è contrario alla rilettura teme
che un massiccio intervento dell’intervistatore comprometta la ricchezza
dell’intervista. È comprensibile questa paura, se si parte dal presupposto che
il cronista è un professionista e che il suo lavoro è quello di intervistare:
se una persona concede l’intervista poi perché si dovrebbe tirare indietro poco
prima della pubblicazione? Senza contare le discussioni che potrebbero nascere
sui concetti, le frasi, le singole parole che magari un politico vorrebbe
cambiare e il giornalista vorrebbe tenere…
Claudio Sabelli Fioretti rivendica la
scelta di far rileggere sempre l’intervista. Nel suo libro Voltagabbana,
lo spiega nel capitoletto dedicato al suo colloquio con il politico Teodoro
Buontempo:
Sulla signorilità di Buontempo vorrei soffermarmi ancora un poco. Alla fine dell’intervista io lo avvertirò che gli manderò il testo perché possa dargli un’occhiata. È un abitudine che ho. So che molti colleghi la considerano una pessima abitudine. Io invece sono convinto del contrario. A mio giudizio un intervistato ha diritto di controllare le sue parole. Posso sbagliare qualcosa, posso aver capito male, può ripensarci. Non è un favore che gli faccio. È un’opportunità che mi prendo. L’intervistato, sapendo che rilegge l’intervista, è più sciolto, ha fiducia, dice di più, anche in presenza di un registratore. E quando rilegge l’intervista fa pochissimi aggiustamenti. Generalmente. Ci sono stati casi in cui di questa “cortesia” qualcuno ha abusato. I giornalisti, spesso, quando vengono intervistati, si mettono a fare i pignolini. Cambiano le virgole, gli avverbi, gli aggettivi. Qualcuno si è anche arrabbiato, non riconoscendosi in quello che io ho scritto. Con un’attrice, Ida Di Benedetto, è stata una rissa. Ma alla fine ha vinto io. È stata una bella battaglia anche con Paolo Cirino Pomicino. Una sola volta ho perso. Con una collega, Antonella Boralevi. Alla fine l’intervista non è uscita. Ho sbagliato, non avrei dovuto cedere. Ma mi aveva stremato,. Dall’altra parte c’è anche chi, letta l’intervista, ti telefona e ti dice: “Stupenda. Non credevo che potessi riassumere così bene tre ore du conversazione. Ombretta Colli non ha voluto cambiare una virgola. Il caro amico Filippo Ceccarelli mi ha telefonato: “Come potrei cambiare qualcosa? È pura poesia”.
Ma Teodoro Buontempo li supera
tutti. Mi dirà: “Io non voglio leggere l’intervista prima”. Ma è un piacere che
le chiedo. “È un piacere che non le faccio. Leggerò l’intervista come tutti,
comprando Sette dal giornalaio”[152].
Alla richiesta diretta di motivare
ulteriormente questa scelta, Sabelli Fioretti risponde così:
Mi interessa sapere come mai lei è così
convinto che si debba far rileggere l'intervista dopo che la si è scritta. Per
molti invece non si dovrebbe mai far rileggere.
Sono giuste tutte e due le posizioni. Io preferisco far leggere
l'intervista perché le mie interviste durano anche quattro ore. E' giusto
quindi che l'intervistato veda come è stato effettuato il lavoro di sintesi.
Accetta sempre le correzioni?
Questa è la fase
"polemica". L'intervistato chiede e propone delle correzioni. Io
insisto, ma solo se ne vale la pena. L'ultima parola comunque non è la mia. Io
riconosco all'intervistato il diritto di cambiare fino alla fine.
Il rapporto tra intervistatore e intervistato è sempre di parità?
Oppure visto che ha sempre a che fare con i potenti rischia di subire il ruolo
di chi ha di fronte?
No, anzi spesso l'intervistato
ha soggezione proprio perché non sa che fine faranno le sue idee. Promettergli
la rilettura lo tranquillizza e lo dispone a maggiore sincerità. Alla fine i
cambiamenti che chiede, nella maggioranza dei casi, sono minimi.
(…) Nel caso di Ruggero Guarini però è riuscito a pubblicare una
pseudo-intervista anche se lui l'aveva
diffidata dal farlo...
Guarini si è comportato in
maniera arrogante. Pretendeva non di correggere alcune cose ma di bloccare
l'intervista nonostante riconoscesse che non conteneva cose false o inventate.
Diceva che era "mutila e tendenziosa" Ma tutte le interviste lo sono
perché tagliare bisogna e alla fine rispecchiano la visione dell'intervistatore
anche se non corrisponde a quella dell'intervistato[153].
La rilettura
allunga i tempi di produzione dell’intervista, visto che la fase “polemica” –
come l’ha chiamata l’intervistatore dei voltagabbana – può esasperare il
giornalista e l’intervistato in duello all’ultima sfumatura. Inoltre si può
incorrere nella diffida alla pubblicazione se l’intervistato è scontento, come
è capitato nel colloquio di Claudio Sabelli Fioretti con Ruggero Guarini. Se
non ci fosse stata la rilettura il pezzo sarebbe uscito integralmente. D’altro
canto, molte interviste si riescono ad ottenere grazie alla promessa di una
rilettura.
Il problema non ha una soluzione unica e
valida per tutte le interviste: le due posizioni sono rispettabili, e hanno sia
vantaggi che svantaggi.
L’opinione di Beppe Severgnini, si può
considerare una buona sintesi: “Claudio Sabelli Fioretti su Corriere
Magazine fa interviste lunghe anche quattro ore, poi seleziona le risposte,
le scrive e le sottopone all’intervistato dandogli la possibilità di leggere
l’intervista prima che venga pubblicata. Lo fa perché pensa che il rapporto di
fiducia non venga condizionato. Altri, invece, come Gian Antonio Stella non
fanno mai rileggere l’intervista dicendo: “Beh, io sono un professionista, so
fare bene il mio mestiere, quindi non c’è alcun bisogno di farla leggere prima
che vada in edicola”. Non c’è un metodo giusto o sbagliato, sono semplicemente
due tecniche diverse. Personalmente non sono contrario a far leggere
l’intervista, anche perché mi è capitato molte volte da intervistato di leggere
delle cose che non avevo mai detto o soprattutto frasi contorte in un italiano
aulico, con paroloni che non avevo mai usato. Magari il giornalista pensa di
farmi piacere, poi viene fuori l’intervista e leggendola mi viene da dire “Alt,
ma io non parlo così!”[154].
3.7 Cosa
rischia il giornalista
La trattazione
dei casi di diffamazione a mezzo stampa nelle interviste riveste un’importanza
capitale per i giornalisti. Come in altri ambiti del diritto dell’informazione,
l’intervista giornalistica deve bilanciare due interessi ugualmente meritevoli
di tutela: da una parte, quello dei singoli e della collettività ad essere
informati correttamente; dall’altra quello dei protagonisti delle notizie a non
vedersi lesi nella loro sfera di riservatezza. Nella storia recente del
giornalismo italiano, le sentenze e i riferimenti giurisprudenziali riguardo a
questo tema hanno oscillato tra la difesa a oltranza del diritto di cronaca e
la affermazione intransigente della tutela della reputazione individuale, senza
un vero e proprio indirizzo comune. Il nodo principale della questione riguarda
la responsabilità del giornalista in
merito a dichiarazioni dell’interlocutore fortemente critiche oppure offensive
nei confronti di terzi. In altre parole, se nelle risposte dell’intervistato vi
sono frasi che diffamano la reputazione di qualcuno, il cronista deve
riportarle in modo asettico senza correzioni oppure deve evitare di pubblicarle
se non ne accerta prima l’attendibilità?
Istintivamente,
si potrebbe pensare che debba prevalere il diritto di cronaca su qualunque
altra esigenza, fatte salve le regole del turpiloquio: proprio perché formulate
dall’intervistato, le dichiarazioni dovrebbero mettere al riparo il cronista
dai fulmini della legge.
In realtà
negli ultimi decenni vi sono molti pronunciamenti di segno contrario che
inchiodano il cronista a un ruolo di censore attento delle dichiarazioni
raccolte, e lo ritengono complice della diffamazione quando si verificano delle
affermazioni diffamatorie nelle interviste.
A partire
dalla sentenza n. 480 del 19 Gennaio 1984 della V sezione della Cassazione
Penale, si ritiene il giornalista colpevole di concorso al reato di
diffamazione addebitabile
all’intervistato, in quanto egli funge da “cassa di risonanza” delle opinioni
altrui.
Il motivo
consiste nel fatto che l’intervistatore è un veicolo tipico di diffusione della
diffamazione, e a nulla serve che non sia d’accordo con le opinioni manifestate
dall’intervistato.
Questa linea
dottrinale è confermata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 5 Febbraio
1986, dove leggiamo: “Il giornalista che abbia causato la pubblicazione di
un’intervista, contenente dichiarazioni ritenute offensive dell’altrui
reputazione, concorre al reato di diffamazione a mezzo stampa poiché mediante
il suo intervento si è resa di pubblico dominio la denigrazione della
personalità morale dell’offeso”. Anche la Corte d’Appello di Milano, il 17
Novembre 1989, dichiara che “nel pubblicare un’intervista non è esente da
responsabilità civile il giornalista che si limita a riportare fedelmente le
dichiarazioni dell’intervistato quando questi riferisce notizie di interesse
pubblico; il giornalista non può prescindere, come di fronte ad ogni altra
notizia che apprende e che si appresta a pubblicare, dal controllare: a)
l’attendibilità della persona intervistata; b) il contenuto delle dichiarazioni
rese onde verificarne la corrispondenza al vero”[155].
Non mancano
comunque pareri e sentenze di segno contrario, ovvero a difesa del diritto di
cronaca e a garanzia dell’intervistatore.
Il tribunale di Padova, il 4 Novembre 1987, giudica “non punibili, per
aver esercitato il diritto di cronaca, i giornalisti che, pur pubblicando
notizie lesive della reputazione di un esponente politico, espongono la notizia
in forma misurata e contenuta dopo ricerche e verifiche, e soprattutto
consentendo allo stesso esponente politico di esporre in stretta successione
cronologica, in una intervista, le proprie opinioni volendo così riparare e
rimediare il guasto lamentato”.[156]
Nel1991, il tribunale di Roma precisa poi che “la pubblicazione di una
intervista contenente notizie diffamatorie, può diversamente ritenersi lecita
allorché soccorrono gli estremi della verità dell’informazione, sotto il
duplice profilo della fedele riproduzione del pensiero dell’intervistato e
della verità della notizia dallo stesso riferita, dell’interesse pubblico alla
conoscenza e della correttezza delle espressioni usate”.[157] La
verità dell’informazione (o meglio la sua approfondita e professionalmente
corretta verifica su più fonti autonome), l’interesse pubblico all’informazione
e la correttezza espositiva nel rispetto della dignità umana sono i cardini
dello ius narrandi: dovrebbero chiarire cosa è pubblicabile e cosa no,
pur essendo a volte vittime di interpretazioni soggettive.
A questo punto
del nostro percorso, è importante citare anche la sentenza della Cassazione del
17 febbraio 1995, che configura per le interviste diffamatorie “l’esimente
putativa del diritto di cronaca nei confronti del giornalista, tutte le volte
in cui la notizia è costituita non solo dalle dichiarazioni dell’intervistato,
quanto dalla qualità di questi, idonea a creare affidamento sulla veridicità
delle sue affermazioni, sì che l’eventuale omessa pubblicazione dell’intervista
si risolverebbe in una forma di censura”.
In altre
parole, se l’intervistato è una persona con una carica pubblica particolarmente
importante, oppure un personaggio noto e influente per l’opinione pubblica, il
giornalista fa bene a pubblicare le sue dichiarazioni perché è già una notizia
il fatto che le parole vengano proprio da quel personaggio. Per esempio, se il
presidente del Consiglio in una intervista diffama un leader avversario, il
giornalista non è colpevole perché l’intervistato ricopre una carica pubblica
importante, e pertanto riportare le sue opinioni – anche se false o
diffamatorie – rientra nel diritto di cronaca. È la chiave per risolvere i due
diritti contrapposti.
Tornando però
ai due orientamenti espressi dalla giurisprudenza, vi sono due sentenze opposte
che hanno fatto scalpore e hanno investito giornalisti di primo piano e due
testate nazionali.
Nel Giugno del
1995, il giornalista Antonio Padellaro intervista per L’Espresso il
collega Giuliano Ferrara sul delicato tema della custodia cautelare. Ferrara,
all’interno dell’intervista, pronuncia le seguenti parole: “Sto cercando di
dire che l’avvitamento antigarantista della magistratura italiana sino agli
eccessi deliranti di Cordova non sarebbe spiegabile”. In seguito alla querela
sporta dal procuratore della Repubblica di Napoli Agostino Cordova, Giuliano
Ferrara, Antonio Padellaro e il direttore responsabile del periodico Claudio
Rinaldi sono stati processati per diffamazione. Quattro anni dopo, la sentenza
della Corte di Cassazione n.2283 del 25 Gennaio 1999 (passata alla storia come
“sentenza Ferrara”) condanna oltre a Ferrara anche Padellaro e Rinaldi perché
si sono resi responsabili di concorso nel reato di diffamazione. La motivazione
è basata sulla sentenza già citata del
1986, dove si dice che “la scriminante dell’esercizio di cronaca non è invocabile
quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il
giornalista non le abbia opportunamente controllate”[158]. Di
nuovo qui si aggiunge che la scriminante non esiste “quando l’intervistato
esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso
l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal
giornalista, senza neppure l’esigenza di indagini intese a verificarne la
corrispondenza ai fatti”. Dunque Padellaro avrebbe dovuto eliminare dalla
rielaborazione scritta dell’intervista la frase contenente gli “eccessi
deliranti” perché l’accusa risultava chiaramente diffamatoria. Secondo questi
giudici quindi l’obbligo della verità non riguarda solo il fatto stesso della
dichiarazione (bisogna riportare quello che effettivamente ha detto
l’intervistato), ma si estende al contenuto della dichiarazione medesima
(quello che dice l’intervistato deve essere vero).
Poco tempo
dopo si registra una sentenza di segno opposto. Infatti la Corte di Cassazione
nell’Agosto 2000, ha assolto Eugenio Scalfari e la sua redattrice Alessandra
Longo (precedentemente condannati in primo e secondo grado) dal reato di
diffamazione per le dichiarazioni offensive della scrittrice Lidia Ravera nei
confronti di Irene Pivetti, allora Presidente della camera. Nell’intervista
apparsa su Repubblica il 23 Aprile del 1994 la Ravera, riferendosi alla
Pivetti, dichiarava: “Al di là e prima di ogni considerazione dico che questa
donna è stupida. E come si fa a commentare seriamente le opinioni di un’oca.
(…) Quando si facevano le lotte femministe lei aveva il grembiulino dell’asilo.
È proprio vero: gratta un integralista e trovi un cretino (…). Non possiamo
aspettarci nulla da queste signore di destra, non sono altro che delle scimmiotte
funzionali alla cultura maschile”. La Suprema Corte ha riconosciuto l’esimente
del diritto di cronaca per i tre famosi requisiti (verità, continenza formale,
interesse pubblico) e ha rammentato che “se il fatto coinvolge personaggi
pubblici, esso riveste un interesse indubbio per l’opinione pubblica e
pertanto, la diffusione dell’intervista risponde perfettamente alla funzione
informativa della stampa e soddisfa correttamente l’esigenza di approfondire la
conoscenza di soggetti agli apici della vita politica, culturale o economica
del paese”[159].
Dunque se in
un’intervista si chiama in causa un personaggio politico di spicco, prevale
l’interesse pubblico e il giornalista non è perseguibile.
A risolvere
l’inconciliabilità delle due interpretazioni opposte riguardanti la
diffamazione nell’intervista
giornalistica, ci ha pensato la sentenza
della Corte di Cassazione n.37140 dell’Ottobre 2001. Essa chiarisce
definitivamente la portata dell’esimente da intervista dirimendo il contrasto
tra la linea morbida e la linea dura. Ecco alcuni passi salienti della
Sentenza:
“L’aver
riportato alla lettera nel testo dell’intervista le dichiarazioni del soggetto
intervistato, qualora esse abbiano oggettivamente contenuto ingiurioso o
diffamatorio, non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca. Il
giornalista può essere scriminato se il fatto in sé presenti profili di
interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione
soggettiva del singolo. In tal caso, il giornalista potrà essere scriminato
anche se riporterà espressioni offensive pronunciate dall’intervistato
all’indirizzo di altri, quando per le rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai
soggetti coinvolti o per la loro indiscussa notorietà, l’intervista assuma
carattere di un evento di pubblico interesse (…) La dichiarazione di un capo di
stato, di un leader politico o sindacale, di uno scienziato di indubbia fama,
ad esempio, devono ritenersi meritevoli di essere integralmente pubblicate,
indipendentemente dalla veridicità dei fatti narrati o dalla intrinseca
offensività delle espressioni usate. (…) Sussiste una scala di valori, in
relazione alla notorietà del personaggio, che non può essere trascurata. (…) Il
problema che sorge spontaneo è costituito dalla qualificazione da dare al personaggio
che rilascia l’intervista, al fine di accertare se effettivamente si tratti di
un personaggio noto e affidabile, le cui dichiarazioni siano comunque
meritevoli di essere pubblicate”[160].
Com’era
prevedibile, la sentenza ha provocato reazioni discordanti tra gli esperti. Per
Emanuele Lucchini Guastalla, ad esempio, si tratta dell’“unica via d’uscita
possibile per consentire un libero diritto di cronaca; per Corso Bovio invece
“si poteva fare di più, al cronista è riconosciuta una zona franca ampia, ma
non assoluta”.
Sicuramente i
giudici con questa decisione hanno preso atto sia dei due orientamenti emersi
dalle precedenti sentenze, sia del diverso carattere che un’intervista può
assumere e hanno trovato una linea di compromesso che possa far convivere il
più possibile due diritti così importanti come la tutela della dignità e il
diritto di cronaca. Nel dibattito è intervenuto anche il presidente
dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, il quale sottolinea
l’obbligo della professionalità per l’intervistatore che non vuole trovarsi
invischiato in querele e accuse di diffamazione:
“Un
personaggio pubblico può anche fornire una ‘notizia del diavolo’ riferita
all’ufficio che ricopre. È evidente in tal caso l’innocenza del cronista, ingannato
dall’uomo pubblico, che risponderà da solo delle sue irresponsabili
affermazioni. Il giornalista, per salvaguardare la sua dignità di
professionista e il suo ruolo di mediatore intellettuale, non può e non deve
trasformarsi in una “cassa di risonanza” (= propagandista) di tesi diffamatorie
di parte o in una “buca delle lettere” (= impiegato di redazione) nella quale
gli intervistati rovescino affermazioni palesemente false oppure valutazioni
critiche gratuitamente offensive immediatamente rilevabili. Giornalista o
propagandista. Questo è il dilemma. Senza mai dimenticare che il decoro e la
dignità professionali sono compromessi solo quando il giornalista viene meno
alla libertà di informazione e di critica”[161].
CAPITOLO 4
L’INTERVISTA ATTRAVERSO QUATTRO AUTORI
Cenni biografici
Oriana Fallaci
è nata nel 1929 a Firenze. Comincia la sua carriera giornalistica a L’Europeo,
per poi collaborare anche con altre testate sia in Europa che nel Sud
America. Inviata di guerra e grande intervistatrice, ha scritto libri di
successo come Lettera a un bambino mai nato, Un uomo, Insciallah, Se il sole
muore, Penelope alla guerra. Dopo gli attacchi terroristici dell’11
Settembre 2001 ha scritto La rabbia e l’orgoglio, seguito due anni dopo
da La forza della ragione.
Lo stile
“Questo libro non vuol essere qualcosa in più di ciò che è: una
testimonianza diretta su diciotto personaggi politici della storia
contemporanea. Non vuole promettere nulla di ciò che promette: un documento a
cavallo tra il giornalismo e la storia. Però non vuole presentarsi nemmeno come
una semplice raccolta di interviste per gli studiosi del potere e
dell’antipotere. Io non mi sento un freddo registratore di quel che ascolto e
che vedo. Su ogni esperienza professionale lascio brandelli d’anima, a quel che
ascolto e che vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente o
dovessi prendere posizione (infatti la prendo, sempre, in base a una precisa
scelta morale), e dai diciotto personaggi non mi recai col distacco
dell’anatomista o del cronista
imperturbabile. Mi recai oppressa da mille rabbie, mille interrogativi che
prima di investire loro investivano me stessa, e con la speranza di comprendere
in che modo, stando al potere o avversandolo, essi determinano il nostro
destino”.[162]
L’incipit di Intervista
con la storia, la raccolta delle interviste con i potenti della terra
pubblicata nel 1974, è un manifesto fedele dell’approccio di Oriana Fallaci
alla tecnica dell’intervista. Troviamo, infatti, il desiderio di varcare i
confini del giornalismo ed entrare nelle pieghe della storia contemporanea
interrogandone i suoi protagonisti. Per
farlo, l’intervistatore non può secondo la Fallaci vestire i panni di un giudice
imparziale che raccoglie acriticamente le dichiarazioni dei testimoni;
né si può limitare a reggere il microfono e ascoltare passivamente le ragioni
degli interlocutori. Al contrario, Oriana Fallaci affronta l’intervistato con
la certezza che solo penetrandone la psicologia, mettendone a nudo le
debolezze, analizzandone i dati biografici e tratteggiandone il carattere si
può capire come il potente decida il destino del proprio popolo. Dialogando con
presidenti, capi di stato, terroristi, generali o guerriglieri, la giornalista
toscana non dimentica che anch’essa fa parte della storia. Oriana Fallaci non
rinuncia alla sua cultura, alle proprie convinzioni, alle proprie opinioni
sulle scelte di chi ha di fronte, ai propri dubbi e anzi li ripropone con più
forza prima di confrontarli con le scelte degli interlocutori. Così facendo
viene rivoluzionato il ruolo classico
dell’intervistatore: non è più un mediatore tra i lettori e l’opinione
dell’intervistato, bensì diventa il protagonista in prima persona di un
confronto tra due anime. La giornalista è padrone di una soggettività che si
nasconde né si sacrifica sull’altare dell’imparzialità: a costo di lasciare
“brandelli d’anima” in ogni colloquio, la Fallaci non molla la presa finché non
avvicina la verità e svela l’interiorità dei suoi interlocutori. Senza cautele,
senza timidezze, non rinunciando mai alla sua umanità, li denuda fino a mostrarli per quello che sono e non
per quello che dicono di essere.
I ritratti
della Fallaci si riconoscono innanzitutto per la loro lunghezza sterminata. È una
caratteristica tipica del suo stile di giornalista e di scrittrice; ancora oggi
quando interviene sui giornali, i suoi pezzi occupano intere pagine. Sul
settimanale L’Europeo le interviste pubblicate negli anni ’70
occupavano, con le fotografie del personaggio, tra le otto e le dieci pagine.
Per interrogare gli interlocutori in profondità e trarne articoli non
estemporanei, i colloqui dovevano avere una durata considerevole, cosa non
semplice se consideriamo la statura e i mille impegni dei personaggi avvicinati[163].
Il numero di
domande arriva anche a cinquanta per intervista, le risposte sono complete,
sempre argomentate e mai telegrafiche. Generalmente le interviste della Fallaci
si aprono con la descrizione fisica dell’interlocutore, del luogo del colloquio,
e di alcuni elementi utili a mettere in guardia il lettore sul personaggio o a
smontare alcuni luoghi comuni su di lui.
Lo stile è lo
stesso dei grandi romanzi della Fallaci: una scrittura soggettiva, vivace,
appassionante, composta di frasi brevi, con un linguaggio ricco, un ritmo
sostenuto che non annoia il lettore, descrizioni dettagliate e metafore
azzeccate.
Riportiamo
come esempio l’inizio dell’intervista con il leader palestinese Yasser Arafat:
“Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che
no, non poteva essere lui. Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al
primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel
fluido misterioso che emana sempre da un capo
investendoti come un profumo o uno schiaffo. Di impressionante non aveva
che i baffi, folti e identici ai baffi che ciascun arabo porta, e il fucile
mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca
mai. Certo, lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con
nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso. Di statura era
piccolo, un metro e sessanta, direi. E anche le mani erano piccole, anche i
piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così
massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità. Su tutto ciò si
rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo
osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il
guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino
alla noia”[164].
In queste
interviste, le domande sono sempre dirette e vanno al cuore dei problemi: non
troviamo mai perifrasi, giri di parole, termini burocratici tipici dei colloqui
politici. I quesiti sono accompagnati sempre da argomentazioni o da alcuni dati
a supporto della propria tesi. Il tono veemente e immediato costringe
l’interlocutore ad aprirsi e a dover sempre giustificare le proprie risposte.
In caso di tematiche complesse, la Fallaci tende a semplificare senza
banalizzare, per far si che tutti i lettori possano comprendere e farsi un
giudizio. Per marcare le distanze con l’interlocutore, Oriana Fallaci dà sempre
del lei all’intervistato, accompagnato sempre dalla carica che ricopre o da una
denominazione: “Signora Gandhi” per Indira gandhi, Dottor Kissinger, Senatore
Nenni, “Maestà” per Rehza Palavi, “Signor presidente” per Alì Butto.
L’andamento
ricorrente è quello di una domanda generale, alla quale si succedono poi
domande sempre più precise sull’argomento fino ad arrivare al nocciolo della
questione. Per ogni risposta, la giornalista dice la sua o fa trasparire il suo
pensiero opposto o coincidente a quello dell’interlocutore. La Fallaci tende a
usare la prima persona singolare nelle domande più scomode o impertinenti e la
prima persona plurale quando si fa portatrice davanti la potere delle istanze
dei lettori.
Ad esempio,
quando incontrò la presidente indiana Indira Gandhi, la successione delle
domande sulla guerra al Pakistan fu la seguente:
Incomincerò dalla domande più brutale. Lei ha vinto, stravinto una
guerra. Però non siamo in pochi a considerare questa vittoria come una vittoria
pericolosa. Crede davvero che il Bangla Desh sia l’alleato che sperava? Non
teme che possa rivelarsi invece un peso assai scomodo?
Senta, la vita è sempre piena di pericoli e io non credo che i
pericoli si debbano evitare. Io credo che si debba fare quel che ci sembra
giusto. E se quel che ci sembra giusto comporta un pericolo…. Bene: bisogna rischiare il pericolo. È sempre stata
la mia filosofia: alle conseguenze di un gesto necessario io non ho mai
pensato. Le conseguenze io le esamino dopo, quando arriva la situazione nuova e
allora affronto la situazione nuova. (…) Voglio affermare che ci sarà amicizia
tra noi e il Bangla Desh. E no amicizia da una parte sola, ovvio. Se offriamo
qualcosa al Bangla Desh, è evidente che il angla Desh offre qualcosa a noi. E
perché il Bangla Desh non dovrebbe essere in grado di mantenere le promesse
fatte? Economicamente è pieno di risorse e può rimettersi in piedi.
Politicamente mi sembra allenato da gente allenata. I profughi stanno tornando
a casa…
Ci stanno tornando davvero?
Sì, due milioni sono già rientrati.
Due milioni su dieci. Non sono molti.
No, ma dia tempo. Tornano in fretta. Abbastanza in fretta. Io sono
soddisfatta. Più di quanto mi attendessi.
Signora Gandhi, alludendo ai
pericoli della sua vittoria io non mi riferivo soltanto al angla Desh. Mi
riferivo anche al Bengala occidentale, che è India, e che rumoreggia per la sua
indipendenza. Io li ho uditi i nassaliti a Calcutta… E v’è una frase di Lenin
che dice: “La rivoluzione mondiale passerà da Shangai e da Calcutta”.
No. Non è possibile. E sa perché? Perché in India sta già avvenendo
una rivoluzione. Le cose stanno cambiando, qui: pacificamente e
democraticamente. Il pericolo del comunismo non esiste. Esisterebbe se ci fosse
un governo di destra, anziché il mio (…). No, non mi aspetto dispiaceri.
Qualche dispiacere, nel Bangla Desh,
gliel’hanno già dato. Io ho visto linciaggi paurosi a Dacca, dopo la
liberazione.
Sono avvenuti nei primi cinque giorni e sono stati pochi in confronto
ai massacri che gli altri hanno fatto, in confronto al milione di creature che
gli altri hanno ucciso. S’è trattato di episodi disgraziati, è vero, e noi
abbiamo cercato di impedirli. Sapesse quanta gente abbiamo salvato! Ma non
potevamo essere ovunque, non potevamo vedere tutto, ed era inevitabile che
qualcosa ci sfuggisse. In tutte le comunità si trovano gruppi che si comportano
male. Però anche quelli bisogna capirli. Erano così arrabbiati, accecati dal
risentimento. Per essere giusti, non si deve considerare ciò che lei ha visto
in pochi giorni ma ciò che loro hanno visto e sofferto in molti mesi.[165]
L’esperienza
di inviata di guerra dentro la barbarie dei conflitti, in paesi come il
Vietnam, l’India, il Pakistan, l’Iran e
Israele – solo per citarne alcuni – permette alla Fallaci di porre le
proprie domande con la forza del suo vissuto personale. Quindi capita spesso
che rafforzi le domande con affermazioni del tipo: “Io ho visto i linciaggi
paurosi a Dacca..”, “Noi qui a Saigon si diceva…”, “Qui a Teheran le gente si
chiude in un silenzio impaurito..”[166].
Questo le permette di acquistare credibilità e di ridurre al minimo la
soggezione di fronte ai potenti. La grande
preparazione della Fallaci, associata al suo carattere combattivo e
indomabile, l’hanno resa un osso duro per tutti, presidenti e guerriglieri,
sacerdoti e senatori.
Nelle sue
interviste possiamo individuare due versanti di discussione, spesso intrecciati
fra loro: quello storico e quello personale. Da una parte molte domande
storiche indagano i temi contemporanei più scottanti: le guerre in corso, la
povertà, i regimi, i negoziati di pace. Dall’altra si scava la biografia del
personaggio, la sua infanzia, le sue origini, la ascesa al potere, il
carattere, la religione, l’umanità. Con la Fallaci ogni intervistato deve
affrontare un colloquio a tutto campo: il cancelliere tedesco Willy Brandt
parla del Muro di Berlino ma anche della sua infanzia in Norvegia, il
segretario di stato americano Henry Kissinger discute della pace in Vietnam e
subito dopo del suo insegnamento da giovane all’università di Harvard.
Per quanto
riguarda il valore storico delle interviste, la Fallaci riesce a far emergere un’idea
sui significati complessivi di ogni
vicenda affrontata: il lettore viene messo a contatto, direttamente, con
le tesi in gioco e confronta tutti i punti di vista (dell’autrice e del
personaggio). Il risultato è una contestualizzazione dei fatti senza
un’acquisizione passiva di conclusioni a cui altri sono giunti (come nei saggi
o nei libri storici).
Ecco un
esempio di discussione sulla questione mediorientale, tratto dal colloquio con
il premier israeliano Golda Meir:
Signora Meir, sa qual è l’opinione di molti? È che il terrorismo
arabo esiste ed esisterà sempre finché vi saranno i profughi palestinesi.
Non è vero, perché il terrorismo è divenuto una specie di
internazionale malvagia: una malattia che colpisce persone le quali non hanno
nulla a che gfare con i profughi palestinesi. Consideri l’esempio dei
giapponesi che commisero la strage di Lidda. Gli israeliani occupano forse
territori giapponesi? Quanto ai profughi, ascolti: ovunque scoppia una guerra
vi son profughi. Non ci sono solo i profughi palestinesi al mondo: vi sono
quelli pakistani, indù, turchi, tedeschi… Perbacco, esistevano milioni di
profughi tedeschi lungo il confine polacco che ora è Polonia. Eppure la
Germania si assunse la responsabilità di questa gente che era la sua gente. E i
sudet’? nessuno pensa che i sudati debbano tornare in cecoslovacchia. Com’è che
tutti si commuovono per i palestinesi e basta?
Ma il caso dei palestinesi è diverso, signora Meir, perché…
Lo è certamente. Sa perché? Perché, quandoc ‘è una guerra e la gente
scappa, di solito scappa verso paesi di lingua diversa e religione diversa. I
palestinesi, invece, fuggono verso paesi dove si parla la loro stessa lingua e
si osservava la loro stessa religione. Fuggirono in Siria, Libano, in
Giordania: dove nessuno fece mai nulla per aiutarli. (…)
Signora Meir, non sente almeno un po’ di pena per loro?
Certo che la sento. Ma la pena non è responsabilità, e la
responsabilità verso i palestinesi non è la nostra: è degli arabi. Noi, in
Israele, abbiamo assorbito circa un milione e quattrocentomila ebrei arabi. (…)
Certo abbiamo problemi con loro, ma resta il fatto che li abbiamo accettati e
aiutati. Gli arabi invece non fanno mai nulla per la propria gente. Se ne
servono e basta.
Signora Meir, e se Israele permettesse ai profughi palestinesi di
tornare qui?
Impossibilie. Per vent’anni son stati nutriti di odio per noi: non
possono più tornare fra noi. I loro bambini non sono nati qua, sono nati nei
campi, e tutto ciò che sanno è che bisogna uccidere gli israeliti: distruggere
Israele. Abbiamo trovato libri di aritmetica, nelle scuole di Gaza, che
ponevano problemi del genere: “Hai cinque israeliani. Ne ammazzi tre. Quanti
israeliani restano da ammazzare?” Quando insegni simili cose a creature di
sette o otto anni, ogni speranza svanisce. Oh, sarebbe un bel guaio se per loro
non esistesse altre soluzione fuorché quella di tornare qui! Ma la soluzione
esiste. Lo dimostrarono i giordani quando gli dettero la cittadinanza e li
chiamarono a costruire iun paese chiamato Giordania. Già: ciò che hanno fatto
Abdullah ed Hussein è molto meglio di ciò che hanno fatto gli egiziani. Ma lei
sa che negli anni buoni, in Giordania, c’erano palestinesi al posto di primo
ministro e di ministro degli Esteri? Sa che dopo la partizione del 1922 la Giordania
aveva solo trecentomila beduini e che i profughi palestinesi erano la
maggioranza? Perché non accettarono la Giordania come il loro paese, perché…
Perché non si riconoscono giordani, signora Meir. Perché dicono
d’essere palestinesi e che la loro casa è la Palestina, non la Giordania.
Allora bisogna intenderci sulla parola Palestina. Bisogna ricordare
che, quando l’Inghilterra assunse il mandato sulla Palestina, la Palestina era
la terra compresa tra il mediterraneo e i confini dell’Iraq. Questa Palestina
copriva le due sponde del Giordano, perfino lo High Commisioner che la
governava era lo stesso. Poi, nel 1922, Churchill fece la partizione e il
territorio a est del giordano divenne la Cisgiordania, il territorio a Ovest la
Transgiordania. Due nomi per la stessa gente. Abdullah, il nonno di Hussein,
ebbe la Trangiordania e in seguito si prese anche la Cisgiordania ma, ripeto,
continuò sempre a trattarsi della stessa gente. Della stessa Palestina. Arafat,
prima di liquidare Israele, dovrebbe liquidare Hussein. Ma Arafat è così
ignorante. Non sa nemmeno che, alla fine della Prima guerra Mondiale, ciò che
oggi è Israele non si chiamava Palestina: si chiamava Siria del Sud. E poi…
insomma! Se dobbiamo parlare di profughi, io le rammento che per secoli gli
ebrei furono i profughi per eccellenza! (…) Eppure sopravvissero, e si
ritrovarono per fondare una nazione…
Ma è ben questo che i palestinesi vogliono, signora Meir: farsi una
nazione. Ben per questo alcuni dicono che dovrebbero avere il loro Stato nella West
Bank.[167]
Ogni incontro
di questo tipo ha esposto la Fallaci ad una serie di problemi e di rischi.
Innanzitutto è difficile esser presa sul serio da interlocutori di questo
calibro. Inoltre si è confrontata con realtà culturali totalmente diverse, con
il problema del traduttore e della palese opposizione tra le sue idee e quelle dei suoi
interlocutori. Oriana Fallaci decise di non venire mai meno alle proprie
convinzioni (giuste o sbagliate che siano). E per questo non si mise mai in
ginocchio. Nemmeno di fronte ad Arafat:
Lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo
questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a
capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.
Questa è la vostra guerra, non è la nostra. E in questa guerra noi
non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci di
essere contro gli ebrei.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro E volete pagarli col
nostro sangue, con la nostra terra. (…) L’ignoranza sulla Palestina non è
ammesa perché la palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri
Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un
giorno la vostra coscienza si sveglierà ma fino a quel momento è meglio non
vederci.
Per questo lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra
noi, io son sempre sveglio dietro ai miei occhiali. Dormo solo quando me li
tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.
Solo una. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita.
Vuol fare come Ho-Chi-min o l’idea di vivere accanto a una donna la ripugna?
No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più
tempo. Ho sposato una donna che si chiama Palestina[168].
Il potere mal
digeriva questi incontri con una personalità del calibro della Fallaci.
Il generale
nordvietnamita Giap dopo l’intervista le fece consegnare da un interprete “tre
foglietti di carta velina dicendo che solo questo, era il testo del colloquio
che avevo avuto col generale. Il generale non avrebbe riconosciuto altro testo
e io dovevo impegnarmi a pubblicarlo. Lessi i foglietti. Non c’era più nulla di
ciò che avevo ascoltato. (…) ‘Lo pubblicherò’, risposi. ‘Ma insieme al testo
vero’”.[169]
Dopo
l’incontro con Golda Meir, i tre nastri contenenti la conversazione vennero
addirittura rubati dalla stanza dell’Hotel dove alloggiava la Fallaci. La
giornalista dovette chiedere un altro colloquio per rifare l’intervista da
capo.
A volte non si
sbaglia a definire le interviste della Fallaci dei veri e propri incontri di
pugilato. Come nel caso dell’ayatollah Khomeini, leader dei musulmani sciiti e
artefice della rivoluzione islamica iraniana. Nel febbraio del 1979 rovesciò lo
scià Rehza Pahlavi. La Fallaci prima lo accusò di essere un dittatore fascista,
di fare leva sulle masse ignoranti e fanatiche; poi si scagliò contro la legge
islamica che opprimeva le donne, segregandole dagli uomini, consentendo la
poligamia e costringendole a nascondere il viso con il chador. Lei accusava,
l’Ayatollah rispondeva sempre più ferocemente. Al culmine della tensione la
Fallaci si strappò di dosso il chador definendolo “stupido cencio da medioevo”.
Khomeini scrollò le spalle e sibilò: “se la veste islamica non le piace,
non è obbligata a portarla, perché la veste islamica è per le donne
giovani e perbene”[170].
Altrettanto
aggressiva la giornalista si mostrò nel 1986 con il colonnello libico Muhammar
Gheddafi. A fine intervista domandò a Gheddafi:
Colonnello, ma lei crede in Dio?
In Dio?
Sì, in Dio.
Ovvio che credo in Dio! Perché me lo chiede?
Perché credevo che Dio fosse lei…[171]
Cenni biografici
Roberto Gervaso
è nato a Roma nel 1937. Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti ed è laureato
in lettere moderne. Entrato a ventitrè anni al Corriere della Sera, è
poi passato a Il Resto del Carlino e La Nazione. Ha collaborato
con il Giornale e con il Gr2. Con Indro Montanelli ha firmato sei
volumi della Storia d’Italia. Tra i suoi libri più famosi ricordiamo
Cagliostro, Casanova, I Borgia e Nerone.
Lo stile
“Nel Maggio del ’76 Gustavo Selva, balzato in sella al GR, mi chiese
d’intervistare i neo-candidati alle elezioni politiche, ammonendomi: ‘In due
minuti devi chiedere e farti dire tutto. Niente chiacchiere, niente fronzoli e
nessuna riverenza per nessuno, nemmeno per il Presidente del Consiglio’.
Le interviste, a botta e risposta, ebbero un tale successo che decisi
di estenderle, naturalmente allargate, ma con lo stesso ritmo telegrafico a Il
resto del carlino e La nazione, i quotidiani cui collaboro”[172].
Così Roberto
Gervaso descrive la nascita del suo libro Il dito nell’occhio,
pubblicato da Rizzoli nel 1977, prima raccolta delle sue interviste ai
personaggi politici più importanti del tempo. A questi ventitrè colloqui ne
seguiranno moltissimi altri pubblicati su quotidiani nazionali come Il
Giornale, e altri libri dove affinerà la tecnica dell’intervista giornalistica
di cui è uno degli interpreti più navigati.
Lo stile di
Gervaso è caratterizzato soprattutto dalla complicità con l’intervistato, dal ritmo incessante di
domande brevissime e dal tono brillante.
La prosa
introduttiva è asciutta, scorrevole, precisa nei dettagli descrittivi e acuta
nelle osservazioni; i personaggi sono ritratti con poche pennellate che ne
tratteggiano la storia, l’aspetto fisico, i suoi gusti con la sottile ironia
che traspare anche dai romanzi dello stesso autore.
Nella presentazione
del personaggio occupa sempre poche righe, e ha inoltre la funzione di
predisporre il lettore al clima dell’intervista. Prendiamo ad esempio l’inizio
dell’articolo dedicato all’esponente della Dc Giulio Andreotti.
“Se è vero che il potere logora chi non ce l’ha, nessuno più
d’Andreotti scoppia di salute.
È nella stanza dei bottoni dal ’47, quando De Gasperi lo nominò
sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Non aveva che ventott’anni,
anche se ne dimostrava qualcuno di più, come oggi, che ne ha cinquantotto, ne
dimostra qualcuno di meno.
Nessun politico sa più di lui ciò che vuole, quando lo vuole e,
soprattutto, con chi lo vuole. Più realista di Bismarck, più tempista di
Talleyrand, raramente sbaglia e se sbaglia, sbaglia sempre a ragion veduta.
I suoi rischi sono sempre calcolati, le sue uscite mai improvvisate.
Solo improvvise. Le sue trame sono sottili, come le sue mani e il suo cervello.
Non si vedono, se non quando sono compiute. È difficile persino immaginarle e,
forse, per questo quando lui – e solo lui – decide di svelarle fanno tanto
rumore, scatenano tante polemiche, gli inimicano gli amici e gli amicano i
nemici (chi siano questi e chi quelli è difficile dire, ché cambiano
continuamente, e mai a caso).
A differenza di tanti colleghi meno agili, ma anche meno intelligenti
di lui, ch’è intelligentissimo, quando cade, cade in piedi. I suoi tonfi fanno
rumore, non male. Può sbattere il sedere, non la testa. Riporta contusioni, non
fratture. Può finire al pronto soccorso, mai all’ospedale. Non ha bisogno di
fasce: un cerotto gli basta. La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a
Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte Beauve. Scrive come
parla, con verve, eleganza, competenza, e le sue battute lasciano il segno. Come
le sue sortite.”[173]
Al termine del
ritratto di presentazione, Gervaso attacca con le domande. Sempre brevissimi, i
quesiti non superano mai le venti parole: sono interrogativi secchi, senza
fronzoli né orpelli. Per ogni intervista se ne contano circa settanta: un
numero molto alto, dovuto al fatto che le risposte sono anch’esse molto brevi.
Le affermazioni dell’intervistato sono scarne, lapidarie, di una o due righe al
massimo: delle vere e proprie sentenze. L’alternarsi incessante di domande e
risposte trasmette ritmo all’intervista. Il tono è condizionato dal sottile
gioco psicologico che si instaura tra i due interlocutori. Ecco un esempio
tratto da un’intervista con Gianni Agnelli:
Lavora più lei o un operaio di Mirafiori?
La disciplina di un operaio è molto pesante, ma il mio lavoro è
carico di responsabilità.
Quali sono i suoi talloni d’Achille?
La difficoltà di fermarmi su qualcosa.
La volubilità, dunque?
No, una certa instabilità.
Cos’è il potere?
Prendere delle decisioni che coinvolgono gli altri.
Lei ne ha mai abusato?
Da buon piemontese, no. Il potere, poi non mi piace.
Dà più potere la ricchezza, o ricchezza il potere?
Quando il potere dà la ricchezza, significa che è mal usato.
Quando la ricchezza dà il potere?
Quando un patrimonio impone d’assumere posti di responsabilità.[174]
Le domande di
Gervaso svariano a tutto campo, dalla politica all’attualità, dal lavoro alla
vita privata di ogni intervistato. Ogni interrogativo contiene un’osservazione,
ogni risposta viene formulata in modo preciso ma non scontato. Il risultato non
mira tanto ad informare il lettore, a riportare dati, argomentazioni,
riflessioni ed opinioni complessi, quanto piuttosto a far emergere la reazione
del personaggio di fronte alla raffica dei quesiti. Si potrebbero forse paragonare
alle odierne interviste della trasmissione satirica Le Iene, in onda su Italia1, nella
quale il montaggio serrato e l’uso della voce fuori campo alza il ritmo del
dialogo.
Ecco un
esempio, tratto dal colloquio con l’allora ministro dell’Interno Francesco
Cossiga:
Ordine pubblico e pace sociale sono connessi?
L’ordine pubblico è la forma visibile e quotidiana della pace
sociale.
Quando un delinquente è vittima della società?
Quando ha la madre malata, non può farla curare e ruba.
È più facile prevenire o reprimere?
Reprimere.
C’è repressione in Italia?
Io non la vedo.
Da quanti anni è nella DC?
Da quando ne avevo sedici.
Eppure passa per un uomo nuovo.
Com’è nuovo il lenzuolo di una dote tirato fuori dal baule dopo
trent’anni.
Alle ultime elezioni ha avuto 178 mila preferenze. Com’è possibile
senza fare del clientelismo?
Evidentemente, è possibile.[175]
Non c’è tempo
di spiegare, di enunciare i pro o i contro di una decisione, di svelare le
motivazioni di una scelta: l’intervistato si limita a una semplice battuta,
deve riassumere tutto con poche parole, perché l’intervista è telegrafica e le
domande sono tantissime. È questa la ragione della reiterata ricerca della
battuta spiritosa, della battuta, del doppio senso che talvolta toglie
d’impaccio l’intervistato oppure consente a Gervaso di porre qualche domanda
impertinente.
Vediamo come
rispose nel ’76 il radicale Marco Pannella:
Se non si parlasse tanto dei suoi digiuni, continuerebbe a farli?
Digiuno perché non si parli più dei miei digiuni, ma delle nostre
idee. Delle nostre e di quelle altrui.
Ha mai fatto indigestioni?
No.
E scorpacciate?
Tante.
Se fosse ministro, digiunerebbe?
Potrei digiunare, ma potrei anche non digiunare.
Quante volte è stato fermato?
Infinite.
E arrestato?
Una volta in Bulgaria, al tempo dei carri armati di
Praga, e una volta tre anni fa a causa della droga.
Processato?
Almeno centocinquanta volte.
E condannato?
In via definitiva, una.
Siete dunque un partito in libertà
provvisoria.
Provvisoria? Provvisorissima[176].
Il ritmo
brillante fa si che queste interviste si leggano tutte di un fiato, ma che non
ci siano veri contrasti tra i due protagonisti. Gervaso si limita a insinuare
qualche malizia, a fare qualche battuta spiritosa, accontentandosi sempre delle
caustiche repliche altrui. Non gli interessa tanto dimostrare una tesi, o
cercare delle notizie nuove, quanto far emergere un personaggio attraverso
delle brevi affermazioni simboliche. L’atteggiamento non cambia in funzione del
personaggio intervistato: che abbia di fronte un calciatore o un politico, un
attore o un sindacalista, Gervaso non modifica mai il suo stile concreto,
ironico e complice. Tanto che Umberto Eco ha definito le sue interviste ad un
vero e proprio genere letterario:
“Anzitutto c’è l’intervista come genere letterario, in cui predomina
la figura dell’intervistatore su quella dell’intervistato. Si pensi per esempio
alle interviste di Roberto Gervaso, in
cui pare che a rispondere sia sempre La Rochefoucald.[177] Qui
chiaramente l’intervistatore costruisce uno stile unico per ogni intervistato,
anche quando le opinioni che emergono sono diverse. Non so se l’intervistatore
lasci parlare l’intervistato e poi lo riassuma
in frasi lapidarie, o se per così dire ‘prepari’ l’intervistato inducendolo
a pronunciare solo frasi lapidarie. In ogni caso l’intervistatore modella
l’intervista a propria immagine e somiglianza”178.
Cenni
biografici
Alain Elkann è
nato a New York nel 1950. Collabora a La Stampa, Capital, Amica e altre
testate. Ha realizzato numerose interviste televisive prima per Telemontecarlo
e poi per La7. Tra i suoi libri ricordiamo Vita di Moravia,
Cambiare il cuore con Carlo Maria Martini, Essere ebreo con Elio
Toaff, Il padre francese, Le mura di Gerusalemme.
Lo
stile
“L’intervista non era il mio mestiere; ero sempre molto reticente al
giornalismo Tuttavia, capii che l’intervista era la continuazione del mio
essere apprendista. Significava entrare nella vita degli altri, vedere dove
vivono, se c’è odore di cucina in casa loro, se sono in mutande o in
doppiopetto, se sono spavaldi o non lo sono”.[178]
Alain Elkann è
uno scrittore prestato al giornalismo. Un autore che ha avuto fortuna e che ha
scelto, da ormai più di un decennio, di percorrere parallelamente anche la
strada dell’intervista giornalistica. Il suo approccio alla tecnica
dell’intervistatore è stato duplice: da una parte la collaborazione con La
Stampa e altre testate, dall’altra la realizzazione di interviste
televisive per l’emittente televisiva La7. L’unione di queste esperienze
ha consentito a Elkann di plasmare un suo stile personale di conduzione delle
interviste, ormai diventato inconfondibile.
Nell’introduzione
alla sua raccolta di interviste, Elkann scrive così:
“Grazie alla televisione ho imparato una cosa molto importante: la
sobrietà e la brevità delle domande, il saper tagliare. Saltare magari di palo
in frasca, praticando la non-logica del romanzo”.[179]
In televisione
i tempi di trasmissione obbligano il colloquio ad entrare subito nel vivo del
discorso, a non perdersi in chiacchiere che potrebbero annoiare il lettore.
Elkann ha trasferito questa schiettezza anche nel giornalismo scritto: le sue
interviste, infatti, non hanno alcuna introduzione. L’intento è quello di
mostrare subito al lettore l’ospite, direttamente, come se ci fosse una prima
inquadratura televisiva in primo piano e subito dopo la prima domanda
dell’intervista. Ecco alcuni incipit delle interviste di Elkann:
Giulio Einaudi, dove trascorre la domenica?
La passo a roma, in casa mia. Curo la mia biblioteca, guardo i
cataloghi antiquari che arrivano e segno i libri che mi mancano. Se ho tempo,
il lunedì telefono per procurarmi i libri, ma il più delle volte sono esauriti.
Da una parte mi indispettisce, dall’altra meglio così, altrimenti finirei per spendere
oltre le mie possibilità.
Piero Ottone, è appena tornato da un viaggio per mare?
Sì, ero sul Postale che va da Bergen in Norvegia fino a capo Nord e a
Kirkenen. Fa una quarantina di scali per i passeggeri e per le merci.
Ornella Muti, lei si ritiene di essere la donna più bella d’Italia?
Ma che vuol dire! Mi metterebbe un’ansia terribile se pensassi di essere la donna più bella
d’Italia. In quel caso vorrei rimanerlo per sempre. La vita è molto più
complicata che non sentirsi la donna più bella d’Italia. [180]
Le interviste
di Elkann non sono molto lunghe: in genere prevedono una ventina di domande.
Evidentemente, il lavoro di sottrazione che l’autore opera per la televisione
si riflette anche nei colloqui in forma scritta:
“Io adopero, da anni, sempre, dei quadernetti azzurri svizzeri di una
certa misura, perciò quando un’intervista ha superato di tre pagine la prima
metà di un quaderno, è finita, la taglio. È questione di misura: scrivo tutte
le domande e tutte le risposte. E la mia intervista è la dettatura precisa di
tutti quello che ho chiesto e di tutto quello che viene risposto e basta”[181].
Durante
l’intervista, Elkann non diventa mai protagonista in prima persona, ma
preferisce lasciare campo libero al suo interlocutore: le sue domande sono sempre
generali, non vanno mai a scavare in profondità. Il clima è sempre disteso, e
l’autore riesce sempre ad ottenere così facendo la fiducia dell’intervistato.
Sentiamo lo steso Elkann in proposito:
“C’è una regola molto importante
nel ritmo delle interviste. La gente adora parlare di sé, allora parla
parla parla e tu dici: ‘Grazie’. Solo tu decidi quando l’intervista finisce.
C’è in questo lavoro una specie di metrica. E io credendo nel lavoro e nella
pratica, dopo un po’ ho maturato un istinto, un’abitudine, un esercizio a far
parlare di sé gli altri”.[182]
Ciò che
colpisce, in questi colloqui, è l’assoluta molteplicità degli argomenti
toccati, senza una logica apparente. Il registro si alza e si abbassa, le
tematiche si avvicendano con la massima disinvoltura. I personaggi si
susseguono l’uno totalmente diverso dall’altro.
Le domande
sono semplici, lineari, mai scomode o maliziose. Però quel leggero tratto di
ingenuità che le accompagna può ottenere informazioni lo stesso interessanti.
Il ritratto è sempre vivo.
Il seguente è
un brano tratto dall’intervista al banchiere Cesare Geronzi:
Suggerirebbe ai giovani di intraprendere la sua carriera?
Non so se questo è l’obiettivo dei giovani di oggi. Devo dire che io
ho impiegato ventidue anni per assumere le funzioni di direttore generale di
una piccola Cassa di Risparmio. Ne ho impiegati altri diciassette per arrivare
a quello che faccio oggi. I giovani di quest’epoca hanno ambizioni molto più
frenetiche.
Che rapporto ha oggi il risparmiatore con la Borsa?
È molto attento alla gestione del risparmio. Conosce meglio che in
passato l’attività borsistica e in questa fase mostra propensione verso una
maggiore rischiosità dei propri investimenti.
Quando si riposa che fa?
Cerco di non pensare alla banca. Vado in campagna. Questo è il tempo
della raccolta delle olive, delle letture. Gioco a carte con mia moglie.
Ha ancora casa a Marino?
Certo.
Che rapporto ha con la sua città e i vecchi amici?
È un rapporto tutto particolare, che mi fa trascorrere i miei
week-end e le mie vacanze con i vecchi compagni delle elementari impegnati nel
sostenere la presenza di Marino nella viticoltura.
Com’è il vino dei Castelli?
Buonissimo, naturalmente![183]
È lo stesso
Elkann a descrivere altri particolari del suo
stile di intervistatore.
“Uno deve sempre trovare, come in un romanzo, un ‘manico’. Io non ho
la curiosità aprioristica di far dire questo o quello. Lentamente capisco
quello che voglio che mi si dica, dove voglio andare, e così si comincia”.[184]
Del suo metodo
di intervistatore stupisce solo un aspetto, veramente singolare:
Elkann dice di non prepararsi mai prima delle interviste.
Mi ricordo una volta che non sapevo cosa chiedere a Tinto Brass. Mi
annoiavo, a Cinecittà, e aspettavo. Poi entrando vedo quest’uomo con un enorme
sigaro in bocca e, non sapendo assolutamente cosa domandargli (perché una delle
grandi regole dell’intervista è di non essere preparati), vedendolo fumare il
sigaro e vedendolo grasso, gli dissi: “Ma il suo modello, chi era, Orson
Welles?”. Lui arrossì. Rispose: “Come lo sai? Io sono sposato con la sorella di
Cipriani e la locanda di Torricello è nostra. Da ragazzo vedevo lì Orson Welles
che mangiava con enorme voracità e fumava il sigaro”. E l’intervista partì da
Welles per tornare a Tinto Brass.[185]
Cenni
biografici
Nato a Cura di
Vetralla (Viterbo) nel 1944, Claudio Sabelli Fioretti ha cominciato la sua
carriera nel giornalismo lavorando in piccoli giornali di sport. Poi è passato
a Panorama che Lamberto Sechi stava trasformando nel Time italiano.
Ha diretto Abc, Panorama mese, Sette, Cuore, Gente Viaggi. Inoltre a
lavorato a la Repubblica, a Tempo illustrato, all’Europeo, al
Secolo XIX. Attualmente scrive interviste per Magazine del Corriere
della Sera e brevi editoriali per Io Donna. Ha scritto inoltre
quattro libri: la storia di Gigliola Guerinoni, una biografia di Giovanni
Spadolini, un saggio sulla provincia italiana e un pamphlet sui rapporti tra
uomini e donne.
Lo
stile
Le interviste pubblicate in questo libro appartengono tutte a una
lunga serie pubblicata su Sette durante la direzione di Maria Luisa Agnese.
Sono cominciate nel 1999 con un’intervista di Lidia Ravera ad Alberto Ronchey.
L’occhiello era “Maledetta gioventù. La generazione che non sa invecchiare”.
Ronchey in quella intervista parlò dell’Old boys net, volendo intendere quel
gruppo di giovani che nel 1968, armati di belle speranze, avevano predicato la
rivoluzione e praticato la contestazione, salvo, trent’anni dopo, ritrovarsi
capi di aziende e direttori di giornali. Lidia Ravera fece altre interviste su
questo tema. (…) Poi avvertì il giornale che si era stufata. Io ero stato
appena licenziato da Genteviaggi ed ero a spasso. Maria Luisa Agnese che
aveva fiutato il filone mi chiese di continuarlo. Cominciai intervistando
proprio Lidia Ravera. Al mese di Settembre 2004 sono circa 220 le interviste
realizzate sotto varie testatine che cambiavano nel tempo senza cambiare molto
nella sostanza. Old boys net divenne “Gli anni della gavetta” e quindi “Gli
anni del cortigiano”. Oggi la serie si chiama “Terzogrado”. Ma in fondo abbiamo
parlato sempre della stessa cosa: l’abilità degli uomini nel galleggiare,
resettando la propria memoria, operando un completo lifting del proprio passato
e cambiando per interesse non tanto le proprie idee quanto le proprie azioni.[186]
Nella
postfazione di “Voltagabbana”, Claudio Sabelli Fioretti spiega la nascita della
lunga serie di interviste realizzate negli ultimi sei anni, prima per Sette
e poi per Magazine, gli inserti che escono il Giovedì con il Corriere
della Sera. L’argomento centrale di questi colloqui è la straordinari
abilità degli italiani nel cambiare casacca e passare da una sponda all’altra
pur di sopravvivere ai cambi di potere. Un’indagine sull’adulazione, sul
trasformismo e sull’improvviso cambiamento di idee, programmi, convinzioni di
certi onorevoli (ma non solo loro) appena sentono odore di sconfitta
elettorale.
Attraverso i
dialoghi settimanali con politici, giornalisti, soubrette, agenti, scrittori e
intellettuali, Sabelli Fioretti cerca di capire con le sue interviste chi siano
i voltagabbana, perché siano così tanti e soprattutto così disinvolti.
All’inizio del suo libro l’autore prova a delinearne un ipotetico identikit:
Il voltagabbana dice con molta convinzione di non aver cambiato nulla
(“ho sempre scritto queste cose”). Il cambiamento del voltagabbana è repentino
(“ma è un travaglio che parte da lontano”). Il voltagabbana rifiuta di dare
spiegazioni (“sono cose intime che riguardano solo me”). Il voltagabbana nega
il proprio passato, lo ricostruisce con un personale lifting della memoria
(“mai dette queste cose”) e spara ad alzo zero sui vecchi compagni colpevoli di
essere rimasti coerenti (“sono loro i veri voltagabbana”).[187]
Le interviste
di Sabelli Fioretti sono l’esito di lunghi colloqui (anche tre o quattro ore)
nei quali il giornalista instaura un clima di complicità con l’intervistato il
quale tende ad aprirsi e a non risparmiare giudizi taglienti sui colleghi o
aneddoti interessanti. L’ossatura di questi dialoghi è preceduta da una breve
presentazione del personaggio, poche righe che descrivono sommariamente
l’interlocutore, ricordano al lettore qualche flash della sua carriera, e lo
inquadrano nell’ambito dell’argomento principe, ovvero i voltagabbana.
Willer Bordon divenne famoso, tanti anni or sono, perché pur essendo
iscritto al PCI, prese la tessera radicale. Da allora ha fatto un lungo
percorso: dal movimento referendario, che ha introdotto il bipolarismo in
Italia, ad Alleanza Democratica e all’Asinello. Adesso è nella Margherita dove
non ha perso occasione di sontrarsi con Francesco Rutelli ogni volta che
riteneva giusto difendere Romano Prodi. Un ex radical-comunista (Bordon) fa il
tifo per un ex democristiano (Prodi). Sarà
strano?
“Non più di quanto non possa sembrar strano un ex radicale (Rutelli)
che guida un partito pieno di ex Dc”.[188]
Già dalle
prime righe di questi articoli si intuisce lo stile ricorrente di Sabelli
Fioretti: grande ricorso all’ironia, una scrittura brillante, una forte
preparazione sulla biografia dell’interlocutore per metterne in luce le
contraddizioni senza mai accusarlo o renderlo nervoso. Il clima è disteso, e
l’intervistatore è abile nel suggerire più che nel criticare, nel far tornare
alla mente dell’interlocutore episodi del passato e nello stuzzicare il personaggio proponendogli
opinioni continue su persone di volta in volta nominate.
Il risultato
è un lungo colloquio che, insieme alle
fotografie, occupa sempre cinque o sei pagine del Magazine, con alcuni
elementi ricorrenti.
Una parte
dell’intervista è dedicata sempre alla vita privata dell’intervistato,
all’aneddotica, allo scavare nella memoria per far venire alla luce dettagli
interessanti. Come nel colloquio con il giornalista Marco Travaglio:
Dove hai cominciato a fare il giornalista?
In un piccolo giornale torinese cattolico, Il nostro tempo. Lì
ho conosciuto Giovanni Arpino che mi presentò a Indro Montanelli. Ho fatto
l’abusivo al Giornale come corrispondente da Torino dall’87 al ’92. Il
corrispondente era Beppe Fossati, bravo e simpatico, ma con poca voglia di
lavorare. A volte scrivevo pure i suoi articoli e lui mi dava cinquantamila
lire al pezzo.
C’era anche Mario Giordano al Nostro Tempo.
Me lo ricordo. Arrivò tutto bello grassottello da Canelli con le
guanciotte bianche e rosa. Era bravo.
Giordano sostiene che lui era di sinistra e tu berlusconiano.
Balla clamorosa. Vede talmente tanti berlusconiani che non può
immaginare l’esistenza di gente diversa.[189]
Ecco un altro
esempio tratto dal dialogo con il giornalista e scrittore Massimo Fini:
Ricordi la scuola?
Parini, Berchet, Carducci. Nel mio giudizio del Parini di terza media
c’è scritto: “Ragazzo irrimediabilmente distratto da una incoercibile passione
per i giochi”. Quattro materie a ottobre in prima media, cinque in seconda.
Andai al Berchet. Stessa storia. Quattro materie a ottobre. Ero infantile e
libellista. Finii al Carducci.
Ricordi qualche compagno?
Fabrizio Mondatori, Pesenti, Angelo Rizzoli. Insieme ad un altro
riccone erano chiamati “il quartetto riccone”.
La tua vita, scuola a parte?
Fino ai quattordici anni ho giocato solo a tollini. A quindici anni
scoprii il mondo femminile.
Ricordi il primo amore?
A Savona, bagni Umberto. Anna era una ragazza carinissima. Aveva
quindici anni. Vivevo trasognato. A settembre lei andò in montagna. Io volli
farle una sorpresa e la raggiunsi. La trovai in compagnia di un altro. Da
allora non faccio più sorprese. Telefono sempre prima.[190]
Sabelli
Fioretti si prepara scrupolosamente prima di ogni incontro. Lo si evince dal
tempismo con cui induce l’intervistato a parlare del suo passato, oppure quando
riporta giudizi e opinioni di altre persone sull’interlocutore. In ogni
colloquio, c’è sempre qualche domanda che inizia con: “Tizio dice di te che..”,
“Caio sostiene che una volta…”. Imbeccato in questo modo, l’intervistato
reagisce, dà la sua versione dei fatti e contraddice il pensiero
dell’interlocutore. Il risultato è un continuo riferimento a fatti, date,
luoghi precisi che obbliga l’intervistato a non rimanere mai sul vago. Leggiamo
un brano dell’intervista al direttore del Tg1 Clemente Mimum:
Quando nel 1996 la sinistra vinse le elezioni la Bindi disse: “ora
via Mimum”.
Quando lessi quella battuta, decisi che dovevo durare un giorno di
più di quanto sarebbe durata la Bindi alla Sanità.
Parliamo dei critici televisivi. Norma Rangeri, Manifesto.
Non guarda la tv.
Non è carina con te.
Ha una visione cupa della vita.
Ti rimprovera di mandare in onda le cassette che arrivano da
Berlusconi.
La storia delle cassette è una delle sue passioni. Convincerla che
non sono un servo del padrone è un’impresa disperata.
Ha detto anche: “Non c’è limite alla piaggeria del Tg2. ha
intervistato Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi, sulla finocchiona e sui
vini toscani”.
È sbagliato.
Non hai smentito.
Non perdo tempo con la signora.
Fallo con me.
Un giornale inglese scrisse che il Chianti faceva schifo. Per amore
della toscana feci intervistare due persone, un parlamentare dei Ds e Bonaiuti.
Ma alla signora Rangeri, quando sente il mio nome, viene l’orticaria.[191]
Un
intervistatore come Sabelli Fioretti non si limita a fare domande ma
puntualizza, chiosa, precisa, con affermazioni che spingono l’intervistato a
dire cose divertenti, interessanti e mai scontate. Tutti gli interventi di Sabelli Fioretti presuppongono
una risposta, anche se non sono vere e proprie domande. Il risultato è che sono
tantissime le opinioni forti (come quella di Mimun sulla Rangeri) date dagli
intervistatori per difendersi o per dire la loro sulle persone citate da
Sabelli Fioretti.
Veniamo ai
voltagabbana, vero fuoco centrale.
L’argomento
viene discusso da due punti di vista: in primo luogo l’intervistato deve
difendersi dall’accusa, sempre esposta con garbo e ironia, di essere un
voltagabbana. Sabelli Fioretti prova a evidenziare le sue contraddizioni e
incongruenze, ma sempre con un tono disteso, scherzandoci su, quasi con il sorriso sulle labbra. D’altra
parte il suo primo obiettivo è divertire
il lettore, non litigare con l’intervistato. Ecco l’intervista con il
voltagabbana per eccellenza, il politico Clemente Mastella:
Se io chiedo alla gente qual è il tuo difetto più evidente, mi dicono
l’incoerenza. Come la mettiamo?
Voltar gabbana è nel Dna degli italiani. Non finiamo mai una guerra
con quelli con i quali l’abbiamo iniziata. Tra i politici chi non è
voltagabbana? Berlusconi era socialista. Rutelli era verde e radicale. Bossi ha
dondolato di qua e di là.
E tu?
Io ero e sono ancora democristiano. Questa è la mia coerenza. Mi sono
mosso quando è finita la Dc. Volevo fare un centro ma siamo incappati in
Berlusconi che incrocia oggi l’idea moderata più forte che c’è nel Paese. Fino
a quando c’è lui in campo è impossibile
fare un centro.[192]
Riportiamo a
titolo di esempio anche un brano del dialogo con Willer Bordon:
Per essere coerente sei passato da troppi partiti.
La coerenza deve essere nei contenuti. Chi è più coerente? Chi cambia
uno strumento in modo laico per raggiungere i medesimi obiettivi, o chi, come
Gianfranco Fini, fu uno dei più forti oppositori del sistema maggioritario per
poi diventarne sostenitore quando si è accorto che ne aveva grandi benefici? I
partiti sono strumenti non chiese.[193]
Del portavoce
di Silvio Berlusconi, l’intervistatore mise in luce con ironia la sua tendenza
all’adulazione:
Mi dice almeno un errore di Berlusconi?
Berlusconi ha preso spesso delle decisioni che mi sembravano
sbagliate. Ma poi ho dovuto ammettere che erano giuste.
Faccia una follia. Mi dica un difetto.
Un difetto di Berlusconi… un difetto di Berlusconi… è dura.
Passano i minuti.
Non riesco a trovarlo.
Passano i minuti.
È imbarazzante… un difetto di Berlusconi… non so.[194]
Quando si
parla di voltagabbana, l’intervistato deve fornire a sua volta esempi di
trasformismo, nominare dei voltagabbana e spiegare perché li ritiene tali.
Sabelli
Fioretti in questi momenti induce sempre il suo intervistato a tirare fuori i
nomi, senza ricattarlo o usando toni aspri. Piuttosto giocando sul fatto che
tutti gli altri hanno fatto i nomi, che se no i voltagabbana se la cavano,
suggerendo dei nominativi che fanno reagire l’interlocutore e lo fanno parlare.
Sentite la giornalista Barbara Palombelli:
Preferisco trovarmi di fronte Previti, il falco, il cattivo,
piuttosto che tanti amici finti che sono diventati dei falchi facendo finta di
essere colombe.
Nomi, nomi.
Non posso fare dei nomi.
Così i voltagabbana se la cavano.
(…) Per esempio Mario Segni.
Un buono che ha fatto danni potrebbe essere Di Pietro?
Buono? Non mi è mai piaciuto Di Pietro. Non mi piaceva quando passava
i pomeriggi, lui sì, nello studio di Previti perché voleva diventare capo della
polizia o ministro della Giustizia. O prima, quando andava alle cene con
Pillitteri e con i socialisti milanesi.[195]
Ecco un
secondo esempio tratto dal colloquio con Francesco Cossiga:
Giuliano Ferrara. Dal PCI a Silvio.
Giuliano Ferrara è un liberal leninista. Ha cambiato idea sul valore
ideale, teorico, storico del comunismo, anche se ne è ancora fortemente
imbevuto.
Mastella. Un po’di qua e un po’ di là.
È l’esigenza del capopopolo. Deve cercare l’interesse del popolo.
Quelli di Lotta Continua. Dalle barricate alle direzioni.
No. Sciolta Lotta Continua ritornati alla vita pratica, si sono
arrangiati come potevano. Hanno pensato a campare. Voltagabbana è colui che
passa da una parte all’altra perché gli hanno promesso la presidenza della
commissione o altre utilità pratiche sulle quali non mi soffermo…
Presidente, lei sta facendo con le dita il segno dei soldi.
Utilità pratiche.[196]
Esaminato in
lungo e in largo il mondo dei voltagabbana, Sabelli Fioretti usa qualche
trucchetto per dare ritmo e brillantezza anche al finale dell’intervista. Per
esempio sottopone sempre gli interlocutori al “gioco della torre”: sceglie due
personaggi da mettere in cima ad una ipotetica torre e chiede di salvarne uno. Naturalmente i nomi
sono scelti ad arte per tirar fuori qualcosa di interessante all’intervistato.
Vediamo quelli proposti a Don Gianni Baget Bozzo:
Tra i due adulatori ufficiali, Bondi e Schifani, chi butteresti giù?
Salvo Bondi. È mio amico.
Rutelli o Prodi?
Butto Prodi. È il peggio del cattocomunismo.
Gasparri o La Russa?
Butto La Russa. Gasparri è praticamente uno di Forza Italia.
Alex Zanotelli o Luigi Ciotti?
Salvo Zanottelli. Non sono d’accordo con le cose che dice ma mi è
simpatico. Ciotti no. Ha un’aria equivoca.
Ferrara o Gad Lerner?
Butto Gad Lerner. Ferrara lo amo.[197]
Differenti
quelli di Renato Farina:
Gioco della torre. Travaglio o Facci?
Butto Facci.
Butti Facci?
Assolutamente. Travaglio è cattivo, falsario, ma intelligente. Facci…
Facci? Dai che ce la fai…
Facci odia il popolo bue. Lo butto, così finalmente saprò perché
parla male di me.
Tremaglia o Fisichella?
Butto Fisichella. Ha sempre quell’aria di professore Qualsiasi cosa
dica sembra sempre che l’abbia detta Zeus.
Costanzo o Vespa?
Se salvi uno… l’altro…
Non ti invita più?
Non è questo, mi dispiace…[198]
Le interviste
di Sabelli Fioretti ormai hanno inaugurato un genere ben preciso, che trova la
sua giusta collocazione all’interno del settimanale: lunghezza ampia, tante
domande a 360°, una lettura intrigante e rilassata. Ormai ne ha realizzate
quasi trecento, nelle quali l’autore ha impresso il suo stile pur modificando
la rotta negli ultimi tempi:
“Ormai non c'è più un filo conduttore. Una
volta c'erano i voltagabbana, poi gli adulatori, adesso il gioco della torre e
ultimamente mi sono inventato il governo trasversale, il governo di sole donne
e ultimissimi, gli emergenti e i bolliti. Aneddoti e biografia sono un buon
sistema per smuovere l'intervistato e la sua eventuale timidezza. Ma anche i
nomi sono importanti. Tutti tendono a tenersi sulle generali. E allora bisogna
stanarli e obbligarli a fare i nomi”.[199]
CAPITOLO 5
UN’INTERPRETAZIONE SEMIOTICA DEL GENERE
5.1 Intervista ad Armando Fumagalli
Armando
Fumagalli è docente di Semiotica all’Università Cattolica di Milano. Lo abbiamo
incontrato il 7 Settembre scorso e abbiamo parlato con lui dell’intervista
giornalistica analizzandola dal suo ambito di studio.
Professor Fumagalli, si può
dare un’interpretazione semiotica delle interviste giornalistiche?
Si, la
semiotica può aiutare. Deve però essere una semiotica flessibile, e penso possa
aiutare a far venire fuori quelli che sono gli impliciti di un’intervista.
Innanzitutto dobbiamo tener conto che la buona intervista è un dialogo, non
semplicemente una persona che fa una domanda per sentirsi dire ciò che si
aspettava già. Il giornalista interpella una persona informata sui fatti e
cerca di far venire fuori sempre qualcosa di più. L’intervistatore è
importante, così come nella comunicazione sono importanti sempre i presupposti,
cioè qual è il punto di partenza che diamo per scontato, acquisito e comune.
L’intervistatore, se è abile, può dirigere in modo molto forte un’intervista:
nel senso negativo di fare un intervista manipolatoria oppure in un senso
positivo riuscendo a far venire fuori l’intervistato in un modo reale e più
profondo. In questo si distinguono i grandi intervistatori. La preparazione è
assolutamente importante, come l’intuito e saper creare empatia.
Sì, per esempio
Sabelli Fioretti fa delle conclusioni stilisticamente molto forti, lascia
un piccolo botto alla fine, un flash, mette in fondo una cosa significativa. La
semiotica (aiutata dalla linguistica) può aiutare a verificare quali siano gli
elementi di presupposizione dell’interlocutore nel dialogo, e di elaborazione
retorico stilistica che qualche volta sono funzionali a far emergere il
pensiero, la personalità. Anche se qualche volta forzano un po’ in una certa
direzione. Quindi di credo si possa andare in queste due direzioni, con una
semiotica che si appoggi forzatamente anche agli studi di linguistica.
D’altra
parte l’intervista è sempre un testo scritto.
Sì, in proposito
può essere utile anche la conversation analysis. Ovviamente non possiamo
utilizzare la semiotica greimasiana.
Certo, in Tv
ci sono gli elementi di comunicazione non verbale, il movimento degli occhi, i
silenzi. Ci sono delle tecniche precise che vengono utilizzate dagli
intervistatori, e anche dall’intervistato se è competente. In tv
l’intervistatore interviene molto con il montaggio, può manipolare ciò che
vuole. L’intervistato dal canto suo può mandare una serie di messaggi anche con
il non detto, per esempio restando in silenzio tra una domanda e una risposta:
questo può significare la trasmissione di un’emozione, che lui è emotivamente
coinvolto nel problema. Allo stesso modo può guardare in macchina per fare un
appello diretto, oppure ostentare un’aria serena, oppure manifestare il suo
disagio. Questi aspetti sono stati studiati la prima volta nel celebre
confronto televisivo tra Nixon e Kennedy.
Lì
il sudore di Nixon diede un’impressione negativa a prescindere dal contenuto
delle sue dichiarazioni.
Esatto.
L’immagine era prevalente.
L’intervista radiofonica dove si colloca?
Direi a metà
tra Tv e giornali, perché c’è la voce e non c’è l’immagine.
È un problema
di contesti. L’intervistatore deve mettere la sua cultura al servizio di una
comunicazione chiara ed efficace. Quindi ostentare la competenza per fare un
discorso che non è comprensibile ai lettori è sbagliato, però far capire che
uno è competente facendo delle domande centrate rendendole comprensibili è un
gran vantaggio. Per esempio, faccio una domanda al politico e dimostro la mia
competenza perché gli faccio notare che tre anni fa ha detto il contrario
e cinque anni fa ha detto il contrario del contrario. Viceversa sarebbe
sbagliato usare la competenza utilizzando delle allusioni che può capire il
politico e non può capire il pubblico.
A
volte è proprio il giornalista che diventa protagonista del confronto, come nel
caso della Fallaci.
Sì, è
possibile. È un altro errore, se uno fa
tante interviste e poi emerge sempre lui o lei stessa non è una buona soluzione
comunicativa.
In
tv ormai non si fanno più interviste. Perché?
È un problema
di corsi e ricorsi storici. Gianni Minoli le faceva benissimo, dava quel tocco
di drammaticità forse esagerato però riusciva sempre a far emergere
l’intervistato.
Ultimamente ci
sono state le serie di Il mio novecento, interviste storiche molto
interessanti andate su Rai3. Onestamente interviste di informazione non se ne
vedono. Sono ondate storiche, non credo ci sia una scelta precisa. C’è da dire
anche che un’intervista troppo lunga non regge il pubblico, bisogna riesumarla
in seconda o terza serata, oppure su La7. Diventerebbe per forza di cose una
trasmissione di nicchia. In alternativa rimane lo spazio del satellite, dove vanno in onde le interviste di Beppe
Severgnini, il quale si è ritagliato un suo spazio settimanale per parlare dei
media.
Come si prepara lei prima di un’intervista? Quanto è importante
in genere la preparazione prima dell’ incontro?
Un buona intervista ha bisogno di molta
preparazione. Diciamo almeno un giorno di lavoro, telefonando agli amici e ai
nemici, leggendo tutti i ritagli sul personaggio, che spesso sono moltissimi, e
se c'è qualche libro da leggere tocca
farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza tra una buona e una cattiva
intervista.
Mi
interessa sapere come mai lei è così convinto che si debba far rileggere
l'intervista dopo che la si è scritta. Per molti invece non si dovrebbe mai far
rileggere.
Sono giuste tutte e due le posizioni. Io
preferisco far leggere l'intervista perché le mie interviste durano anche
quattro ore. E' giusto quindi che l'intervistato veda come è stato effettuato
il lavoro di sintesi.
Accetta sempre le correzioni?
Questa è la fase "polemica".
L'intervistato chiede e propone delle correzioni. Io insisto, ma solo se ne
vale la pena. L'ultima parola comunque non è la mia. Io riconosco
all'intervistato il diritto di cambiare fino alla fine.
Il rapporto
tra intervistatore e intervistato è sempre di parità? Oppure visto che ha
sempre a che fare con i potenti rischia di subire il ruolo di chi ha di fronte?
No, anzi spesso l'intervistato ha
soggezione proprio perché non sa che fine faranno le sue idee. Promettergli la
rilettura lo tranquillizza e lo dispone a maggiore sincerità. Alla fine i
cambiamenti che chiede, nella maggioranza dei casi, sono minimi.
Quanto conta l'attacco dell'intervista e
la rielaborazione nel passaggio parlato-scritto?
Io non uso "riscrivere"
l'intervista. Prendo lo sbobinato, che generalmente è di circa 140 mila
battute, e lo porto a 12 mila battute attraverso successivi passaggi durante i
quali tolgo ripetizioni e chiacchiere inutilizzabili. Alla fine l'intervistato
si riconosce perché io non ho usato parole e costruzioni mie bensì quelle sue
autentiche. Per fare questo è indispensabile registrare. Quando si prendono
appunti è inevitabile tradire la forma e il pensiero dell'intervistato.
Ciò che viene detto "off-record"
o in via confidenziale secondo lei deve
essere riportato comunque oppure no ?
No. Ma io uso alcuni trucchetti proprio
perché alla fine l'intervistato rilegge. Per esempio scrivo: "Le dico una
cosa ma non la deve scrivere. Me lo assicura?" "Certo, ha la mia
parola". E poi scrivo tutto quello che mi ha detto. Se la cosa lo diverte,
spesso, lascia tutto.
Quante querele ha ricevuto a causa delle
interviste?
Ho ricevuto tante querele in vita mia ma
per le interviste poche. Mai dall'intervistato, qualche volta da persone che si
ritenevano diffamate dall'intervistato
Nel caso di
Ruggero Guarini però è riuscito a pubblicare una pseudo-intervista anche se lui l'aveva diffidata dal farlo...
Guarini si è comportato in maniera
arrogante. Pretendeva non di correggere alcune cose ma di bloccare l'intervista
nonostante riconoscesse che non conteneva cose false o inventate. Diceva che
era "mutila e tendenziosa". Ma tutte le interviste lo sono perché
tagliare bisogna e alla fine rispecchiano la visione dell'intervistatore anche
se non corrisponde a quella dell'intervistato.
Alla fine
l'intervista è uscita lo stesso e ne sono nate comunque delle polemiche
successivamente...
Si sono seccate un po' di persone:
soprattutto la Rossini e Piperno.
Ho letto. E’ un segno che comunque
l'intervista è riuscita.
No, non direi che le polemiche sono
indizio di qualità. Certo che fanno piacere.
Si comporta
allo stesso modo con chi chiede di essere intervistato rispetto a chi contatta lei? Non c'è il rischio che i primi
la usino come megafono?
Cerco di farlo. Ma è inevitabile
considerare chi ti ha chiesto l'intervista con maggiore severità e chi hai
contattato con maggiore indulgenza. In ogni caso quando sospetti che ti stiano
usando per qualche marchetta devi smascherarli.
Come?
Dichiarandolo, facendolo uscire allo
scoperto, mettendolo in difficoltà proprio sull'autopromozione, usando molta
ironia.
Quando si vede che l'intervistato è in difficoltà oppure renitente bisogna
cambiare argomento?
Si. Per poi tornarci in seguito.
Se si è troppo polemici con l'intervistato
che non la pensa come noi si rischia di non ottenere risposte interessanti.
Qual è il giusto equilibrio tra compiacimento e conflitto?
Io uso la complicità. L'intervistato mi
deve credere dalla sua parte. Per litigare c'è sempre tempo.
La Fallaci nelle famose interviste per esempio non esitava a dire sempre ciò che
pensava... così facendo però si esibiva in prima persona perdendo il ruolo di
giornalista-mediatore.
Le interviste della Fallaci erano dei
combattimenti in cui lei si metteva in prima fila. A me non piacevano.
Lo scopo di
un'intervista deve essere sempre farsi dire ciò che si vuole? Cioè far dire
all'intervistato ciò che sarebbe capace di dire?
Una intervista ha mille scopi. Ma uno dei
principali è riuscire a far dire all'intervistato cose coerenti, reali,
divertenti. Bisogna spesso aiutarlo. Io arrivo anche a indirizzarlo, a
suggerire risposte. E' una forma di maieutica. Gli italiani non sanno
esprimersi, non studiano oratoria a scuola, hanno difficoltà ad esprimersi e a
dire quello che pensano, si esprimono in maniera contorta e oscura. Alla fine
qualcuno mi dice anche: "Non credevo che potessi essere anche così
chiaro". Tremendi sono certi politici e molti professionisti.
C’è sempre un
filo conduttore nell’impostazione dell’intervista? A volte sembra quasi che gli
adulatori siano marginali, che si parli di più degli aneddoti, della biografia
del personaggio, delle sue opinioni.
Ormai non c'è più un filo conduttore. Una
volta c'erano i voltagabbana, poi gli adulatori, adesso il gioco della torre e
ultimamente mi sono inventato il governo trasversale, il governo di sole donne
e ultimissimi, gli emergenti e i bolliti. Aneddoti e biografia sono un buon
sistema per smuovere l'intervistato e la sua eventuale timidezza. Ma anche i
nomi sono importanti. Tutti tendono a tenersi sulle generali. E allora bisogna
stanarli e obbligarli a fare i nomi.
Che poi sono sempre gli stessi... Non c'è
il rischio che diventi un club autoreferenziale?
Sì. Esiste questo rischio.
C'è differenza
nell' intervistare politici, uomini di spettacolo, professionisti oppure
l'atteggiamento che tiene è sempre lo stesso?
C'è differenza solo fra chi ha interesse
all'intervista e chi no. Quelli che hanno interesse sono più
"facili". Quelli che non ce l'hanno sono più reticenti. Ma è una
regola con le sue eccezioni.
L'intervista
che non produce nessuna notizia è da buttare? Le interviste peggio riuscite dipendono
da quello o da un mancato rapporto di fiducia?
Una intervista non riesce quasi
esclusivamente per colpa dell'intervistatore che si è preparato male. Anche il
più reticente degli intervistati può contribuire, proprio con la sua reticenza,
al successo dell'intervista. Anche se è stupido, anche se è arrogante, anche se
non ha niente da dire l'intervista può risultare bella e divertente. Fare
un'intervista divertente è il primo obbiettivo che bisogna porsi
C'è
un modello di intervistatore al quale si ispirava all'inizio della serie?
No. Ma sono un innamorato delle interviste
di Stefano Lorenzetto, di Giancarlo Perna e di Gian Antonio Stella.
Non crede che
oggi l'intervista giornalistica sui quotidiani sia un po' inflazionata? Cioè si
cerchi il parere di vip e uomini della strada su tutto, finendo quasi sempre
per cadere nei luoghi comuni?
L'intervista è inflazionata. Ma tu stai
parlando del "dice-dice" l'abitudine di chiedere ai "vip"
l'opinione su tutto, dai boxer alla verginità. L'intervista di cui abbiamo
parlato finora è un'altra cosa. Il problema non è l'inflazione ma la banalità.
Molte interviste sono inutile spreco di alberi dell'Amazzonia.
Si esatto,
intendevo quelle. Invece le sue credo abbiano inaugurato un nuovo genere
originale che trova la sua giusta collocazione nel settimanale. Nei quotidiani
ci si limita spesso alla battuta volante o al colloquio esclusivamente politico
I dice-dice però sono divertenti.
Ridicolizzano coloro che intervengono e che vogliono dire la loro su tutto.
Specialiste sono Maria Teresa Ruta e Antonella Clerici. Se si parla di
eutanasia hanno ammazzato la nonna. Se si parla di molestie sessuali sono state
violentate dentro un portone.
Qual è
l'intervista meglio riuscita della serie secondo lei? Forse non ce n'è una sola…
Non riesco a giudicare. Mi ha divertito
quella a Bondi.
Com’è il rapporto con il direttore del magazine? Nel
libro cita spesso Maria Luisa Agnese. Le ha mai chiesto di aggiustare il tiro o
le ha sempre lasciato carta bianca?
E' lei che decide chi debbo intervistare.
Non ha mai proposto lei i nomi da
intervistare?
Pochissime volte. Io mi riservo il diritto
di veto.
Mi sembra giusto. Le è capitato spesso di
rifiutarsi?
Qualche volta,
ma non è poi un veto vero e proprio. Lei dice: “Che ne dici?" ed io faccio
una smorfia.
In un capitolo
della mia tesi vorrei analizzare la tipologia delle interviste di quattro
autori: Fallaci, Gervaso, Elkann e Sabelli Fioretti, dagli anni settanta ad
oggi. Secondo lei quali mostri sacri di intervistatori non mi devo scordare di
inserire? Sempre intervistatori di carta stampata comunque. Farei Fallaci per i
'70, Gervaso '80, Elkann '90 e CSF dal 2000..
Se parliamo di carta stampata, aggiungerei
Lorenzetto. Elkann non lo ritengo assolutamente un mostro sacro. E' di un
livello decisamente inferiore.
Sì, Elkann è
quello che mi convince di meno, forse è
più superficiale e adatto alla tv..
Fa domande tipo: come sta? progetti per il
futuro?
Lorenzetto è
veramente bravo…
E' incredibile nella ricerca dei
personaggi che non sono quasi mai famosi.
Ma azzecca
sempre. Cioè è bravo a tirare sempre fuori l'interiorità.. A volte ci si
commuove a leggere i suoi pezzi.
Verissimo.
Assolutamente d'accordo. Ci sono dei
giornalisti eccezionali che non sanno condurre e scrivere in maniera brillante
una intervista. Mentre un buon intervistatore è quasi sempre un buon
ritrattista, un buon cronista. Magari non un buon editorialista. Come un buon
intervistatore sulla carta stampata non è necessariamente un buon
intervistatore per la tv. E viceversa.
In tv comunque è più facile, si vede se uno è
in difficoltà dall'espressione del viso, dalle smorfie dal tono della voce. Sui
giornali bisogna essere capaci di trasmettere tutto soltanto con la parola
scritta...
E' vero anche il contrario. In tv è
difficile scendere in profondità.
Si soprattutto per una questione di tempi.
Interviste di ore e ore sono impensabili. La tv secondo lei ha influenzato il
modo di fare le interviste sui quotidiani? A
parte la moda dei dice-dice…
Una intervista in tv in diretta è
tremenda. Bisognerebbe farle sempre registrate. Come in fondo è per la carta
stampata. Si registrano quattro ore e se ne mandano venti minuti.
Andiamo a dormire?:(
Sì, scusi se le ho rubato troppo tempo.
Grazie mille, le sue risposte mi saranno molto utili
Va bene così, nel frattempo aggiornavo il
mio blog.
Ggrazie
ancora… se per caso ho qualche dubbio magari le riscrivo..
Se posso darti
un consiglio, anche non sapendo come utilizzerai questo materiale, cita il
fatto che l'intervista si è svolta mediante una chat. Questa è una forma nuova
di intervista della quale dovresti riuscire a individuare le caratteristiche.
In effetti non
è facile, poi era la prima volta.. è difficile fare domande intelligenti in
chat... Comunque lo citerò senz'altro.
Fammi sapere quando discuterai la tesi
anzi mandamela se vuoi.
Certo, glielo
farò sapere. Ora sto raccogliendo materiale e contatti per poi scriverla. Anche
perchè non ci sono libri sull'intervista da mettere in bibliografia.
Non c'è nemmeno, a quanto mi risulti, un
corso di tecnica dell'intervista in Italia.
No, né
esistono manuali di giornalismo che trattino di questo tema.
Bene.
Buonanotte per davvero.
Emilio
Carelli, Giornali e giornalisti nella rete, Apogeo 2003
Valerio
Castronovo, Nicola Tranfaglia, Storia della stampa italiana, Vol.VI-VII,
Laterza, 1980-1994
Furio Colombo,
Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985
Alain Elkann, Interviste
1989-2000, Bompiani 2000
Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996
Oriana
Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974
Oriana
Fallaci, Oriana fallaci intervista Oriana Fallaci, Rizzoli 2004
Giuseppe
Farinelli, Ermanno Paccagnini, Giovanni Santambrogio, Angela Ida Villa, Storia
del giornalismo italiano, Utet 2004
Massimo
Ferrari, Le regole del gioco, I.S.U. Università Cattolica 2002
Roberto
Gervaso, Il dito nell’occhio, Rusconi 1977
Roberto
Gervaso, La mosca al naso, Rizzoli 1980
Giovanni Paolo
II con Vittorio Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori
1994
Sergio Lepri, Professione
giornalista, Etas 1993
Stefano
Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004
Paolo
Murialdi, Come si legge un giornale, Laterza 1975
Paolo
Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Il Mulino, 1996
Ruben
Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam
2003
Alberto
Papuzzi, Professione giornalista – Tecniche e regole di un mestiere, Donzelli
1994
Alberto
Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale, La Scuola, 1986
Claudio
Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004
Giovanni
Santambrogio, Giornalismo - Appunti delle lezioni, Appendice di
documentazione, I.S.U. Università Cattolica, 2003
Sergio Zavoli,
La notte della repubblica, Mondadori 1992
[1] Leo Longanesi (1905-1957), giornalista e intellettuale, geniale fondatore di Omnibus nell’Aprile del 1937, il primo settimanale stampato a rotocalco. Le fotografie, le vignette, le titolazioni e i criteri di impaginazione lo elevano a modello del settimanale moderno.
[2]Alberto Papuzzi, Professione Giornalista- tecniche e regole di un mestiere”, Donzelli 1996
[3] Mario Furlan, Il giornale senza segreti”, Paoline, 1996
[4] Sergio Lepri, ,Professione giornalista, Etas 1993, pag.55
[5] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza, 1985, pag.85
[6] Stefano Lorenzetto, Tipi
italiani, Marsilio 2004, introduzione di Gianni Minoli, pag.7
[7] Paul Mc Laughlin, Intervistare… o essere intervistati – L’arte di porre le domande (e rispondere), Franco Angeli 1992
[8] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza, 1985, pagg.85-86
[9] Conversazione con Enzo Magrì,11 Aprile 2005
[10] Platone, Critone, Fabbri Editore, pag.191
[11] “Corbin, Fisk…e chiunque altro ha una storia da raccontare o un interesse personale”.
[12] “Una parte dei quotidiani di New York stanno disprezzando il giornalismo più che possono, tramite qualsiasi forma di servilismo quotidiano che loro chiamano intervista”.
[13] “L’intervista è il peggiore aspetto del nuovo giornalismo. Essa degrada l’intervistatore, disgusta l’intervistato, e annoia il pubblico”.
[14] E.Clerici, Gli intervistai, in Aa. Vv. Il ventre di Milano, vol II, pag.214
[15] Ibid.
[16] Giuseppe Farinelli-Ermanno Paccagnini-Giovanni Santambrogio-Angela Ida Villa, Storia del Giornalismo Italiano, Utet 2004, pag.218
[17] Ibid.
[18] Intervista con Santos Dumont, in Il Giornale d’Italia, 19 Novembre 1901
[19] Intervista a Guglielmo Marconi, in Il Giornale d’Italia, 5 Febbraio 1902
[20] A proposito del marchese Ito a Roma , in Il Giornale d’Italia, 20 gennaio 1902
[21] Un colloquio con Musolino, in Il Giornale d’Italia, 7 Gennaio 1902
[22] Una conversazione col conte De Bulow a Venezia, in Il Giornale d’Italia, 2 Aprile 1902
[23] Montenegro e Vaticano, intervista col conte Luigi Voinovich, in Il Giornale d’Italia, 22 Novembre 1901
[24] Un colloquio con Musolino, in Il Giornale d’Italia, 7 Gennaio 1902
[25] Alberto Cavallari, Colloquio con Papa Paolo VI, in Corriere della Sera, 3 Ottobre 1965
[26] Ibid.
[27] Ibid.
[28] Ibid.
[29] Ibid.
[30] Il Papa alle Nazioni Unite esorta alla pace i popoli del mondo, in Corriere della Sera, 4 Ottobre 1965
[31] Vittorio Messori, laureato in Scienze Politiche, giornalista a La Stampa e al Corriere della Sera, è autore di libri tradotti in tutto il mondo, a cominciare dal primo, Ipotesi su Gesù (più di un milione di copie solo in Italia). Tra i suoi libri più famosi Patì sotto Ponzio Pilato, Dicono che è Risorto, Varcare la soglia della speranza e Rapporto sulla fede, un colloquio con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI.
[32] Giovanni Paolo II con Vittorio Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994, pag.XI
[33] Ibid.
[34] La Chiesa non è una minestra rifatta, profonde le radici cristiane d’Europa, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005, pag.17
[35] Enzo Magrì, Un Giglio all’occhiello del “commenda”, in Ordine Tabloid, 2004
[36] Enzo Magrì, Ritratto di un imputato, in L’Europeo, 1972, n.9
[37] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[38] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974, pag.5
[39] Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923, giornalista e scrittore, fonda nel 1962 la trasmissione Processo alla tappa, in onda tutti i giorni sulla Rai a fine gara durante il Giro d’Italia. Per la televisione pubblica realizza numerose inchieste per Tv7, e conduce trasmissioni giornalistiche di indagine storica, di ineguagliato valore, come Nascita di una dittatura (1972), La notte della repubblica (1989), dedicato alla stagione del terrorismo in Italia, e Credere o non credere (1995). Inoltre è stato condirettore del Telegiornale di Rai1, direttore del Gr1 e presidente della Rai dal 1980 al 1986.
[40]
Giovanni Santambrogio, Giornalismo, Appunti delle lezioni-Appendice di
documentazione, I.S.U. Università Cattolica 2003, pag.63
[41] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.84
[42] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996, pag.65
[43] Sergio Lepri, Professione Giornalista, Etas 1993
[44] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[45] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[46] Umberto Eco, L’intervista, in Alberto Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale,La Scuola 1986
[47] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 28 Aprile 2005
[48] Gianni Minoli, Prefazione a Stefano Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004
[49] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993
[50] Ho perso i Mondiali? No, ho tutelato la Rai, in Corriere della Sera, 14 Maggio 2005, pag.6
[51] Roberto Gervaso, La mosca al naso, Rizzoli 1980, pagg. 103-104
[52] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli, 1996
[53] Marco Magrini, Qui Helsinki, boscaiolo per passione, in Sole-24Ore, 1 Febbraio 2005
[54] Intervista di Beppe Severgnini a Madonna, Corriere della Sera, 1998
[55] Paolo Murialdi, giornalista per numerose testate nazionali, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana dal 1974 al 1981, autore di libri come Storia del giornalismo italiano (1996) e Il Giornale (1998). È stato docente di Scienze della Comunicazione all’Università di Torino.
[56] Paolo Murialdi, Come si legge un giornale, Laterza 1975
[57]Cesare Lanza, L’anti-Corriere, in Il Mondo, 18 Ottobre 1973, pag.5
[58] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag.150
[59] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[60] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993
[61] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996, pag.66
[62] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[63] Aa.Vv., Come si scrive il Corriere della Sera, Rizzoli 2003, pag.64
[64] Dario Di Vico, Finanza rossa, i Ds recuperino credibilità di giudizio, in Corriere della Sera, 14 Agosto 2005, pag.5
[65] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati,Franco Angeli 1992
[66] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.85
[67] Elisabetta Rosaspina, Coelho, il passaparola è il segreto dei bestseller, in Corriere della sera, 2 Settembre 2005, pag.41
[68] Silvia Bizio, Burton: “Vi presento la mia favola gotica”, in Repubblica, 31 Agosto 2005, pag.37
[69] Intervento di Ilaria D’Amico all’Università Cattolica di Milano, Novembre 2005
[70] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. 2003, pag.64
[71] Ibid.
[72] Dino Martirano, “Siamo precipitati, poi il buio e l’acqua fredda”, in Corriere della Sera, 7 Agosto 2005, pag.3
[73] Claudia Voltattorni, “La manovra più difficile, addestramenti speciali per non affondare subito”, in Corriere della sera, 7 Agosto 2005, pag.5
[74] Lello Parise, Il sindaco: non sono più niente, in La Repubblica, 2 Novembre 2002
[75] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. 2003, pag.69
[76] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. Università cattolica 2005
[77] Oriana Fallaci, Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, Rizzoli 2004
[78] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2004
[79] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[80] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti del 24 Aprile 2005
[81] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996
[82] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondadori, 2005
[83] Sergio Zavoli, La notte della repubblica, Mondadori 1992, pag.9
[84] Conversazione con Stefano Lorenzetto dell’11 Luglio
[85] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati, Franco Angeli 1992
[86] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica, 28 Aprile 2005
[87] Sergio Zavoli, La notte della repubblica, Mondadori 1992, pag.9
[88] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996
[89] Gibelli: basta Silvio/ Poi smentisce: falso, ha risposto un altro, in Corriere della Sera, 2 Agosto 2005
[90] Marco Pastonesi, Intervista ad Alessandro Petacchi, in Corriere della Sera, 9 Agosto 2005
[91] Emilio Carelli, Giornali e giornalisti nella rete, Apogeo 2003
[92] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag. 169
[93] Gian Antonio Stella, L’intervista: onesta ma infedele, in Aa.Vv., Come si scrive il Corriere della Sera, Rizzoli 2003
[94] Matteo Garioni, Figo parla con il cuore: “Sono nato per l’Inter”, in Corriere della Sera, 7 Agosto 2005, pag.49
[95] Claudio Sabelli Fioretti,
Confesso che ho sognato un’intervista mutila e tendenziosa. Con Guarini,in
Corriere Magazine, Marzo 2005
[96] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag.169
[97] Paul McLaughlin, Intervistare
o essere intervistati, Franco
Angeli 1992
[98] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005
[99] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[100] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[101] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[102] Riportiamo l’inizio dell’episodio, descritto nell’intervista a Renato Cigarini pubblicata sul Giornale:
Ecco l’avvocato milanese Renato Cigarini. Capita spesso a Botteghe Oscure. Vi si muove con dimestichezza. Va a trovare Togliatti e ogni volta viene ricevuto. Poi sale al quarto piano, dai “duri” che sovrintendono all’organizzazione del partito, e per ore s’ intrattiene a porte chiuse con Secchia. Un giorno l’avvocato confida a Caprara il suo mestiere vero: gestisce l’oro di Dongo per conto del partito. Sì, il tesoro trafugato a Mussolini è nelle mani del Pci. “Faccio la spola con la Svizzera” confessa Cigarini "dove le banche ripongono in capaci caveau tutto quanto consegni agli sportelli". Così il tesoro del duce diventa moneta sonante per coprire le molte spese.
[103] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[104] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[105] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.87
[106] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.85
[107] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[108] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993
[109] Gianni Minoli, Prefazione, in Stefano Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004
[110] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005
[111] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati, Franco Angeli 1992
[112] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996
[113] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996
[114] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[115] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005
[116] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[117] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993
[118] Stefano Lorenzetto, appunti per un intervento al Master Mondatori, 2005
[119] Ibid.
[120] Roberto Gervaso, La mosca al naso,Rizzoli 1980, pag.116
[121] Daria Gorodisky, “Sulle coop accuse reazionarie ma noi non chineremo la testa”, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005, pag.6
[122] Claudio Sabelli Fioretti, Silvio Berlusconi? È la pin-up di Bruno Vespa, in Corriere magazine, 18 Agosto 2005
[123] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974, pag.24
[124] Alain Elkann, Interviste1989-2000, Bompiani 2000, pag.100
[125] Anna La Rosa, Politici, giudici, donne e finanzieri/ I segreti di Cossiga, in Libero, 15 Agosto 2005, pag.10
[126] Anna La Rosa, “Fazio? La scelta fu politica non tecnica”, in Libero, 7 Agosto 2005, pag.7
[127] Stefano Lorenzetto, Il prof. Sciupafemmine si fa un partito/ “Ero l’ispiratore di Di Pietro…”, in Il Giornale, 21 Marzo 2004, pag.14
[128] Claudio Sabelli Fioretti, Che bello essere la “finanzata” d’Italia, in Corriere Magazine, 11 Agosto 2005
[129] Stefano Lorenzetto, appunti per un intervento al Master Mondadori, 2005
[130] “La Chiesa non è una minestra rifatta / Profonde le radici cristiane d’Europa”, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005
[131] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.19
[132] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996
[133] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondatori, 2005
[134] Conversazione con Enzo Megrì, 11 Aprile 2005
[135] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[136] Cesare Lanza, Io ci tenevo a Totti, ma lui mi ha preso in giro, in Corriere Magazine, Agosto 2005
[137] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[138] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[139] Dario Di Vico, “Finanza rossa, i Ds recuperino credibilità di giudizio”, in Corriere della Sera, 14 Agosto 2005, pag.5
[140] Roberto Gervaso, La mosca al naso, Rizzoli 1980, pag.57
[141] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[142] Gian Antonio Stella, L’intervista: onesta, ma infedele, in Aa.Vv, Come si scrive il corriere della Sera, Rizzoli 2003, pag.65
[143] Umberto Eco, Attenzione alle interviste, sono sempre infedeli, in L’espresso, 31 Gennaio 1993, pag.170
[144] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline, 1996
[145] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[146] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996
[147] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[148] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondadori, 2005
[149] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005
[150] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005
[151] Umberto Eco, Attenti alle interviste, sono sempre infedeli,in L’Espresso, 31 Gennaio 1993
[152] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.102
[153] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005
[154] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005
[155] Ruben Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam 2003
[156] Ibid.
[157] Ibid.
[158] Ibid.
[159] Ibid.
[160] Ibid.
[161] Ibid.
[162] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974
[163] Dell’incontro con Henry Kissinger la Fallaci scrive: “Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco”.
[164] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974
[165] Ibid.
[166] Ibid.
[167] Ibid.
[168] Ibid.
[169] Ibid.
[170] Oriana Fallaci, Komeini: questo è l’Iran che vuole Allah, in Corriere della Sera, 26 Settembre 1979
[171] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996
[172] Roberto Gervaso, Il dito nell’occhio, Rizzoli 1977
[173] Ibid.
[174] Ibid.
[175] Ibid.
[176] Ibid.
[177] Francois de La
Rochefocoult (1631-1680), uomo politico e moralista francese, ostile a
Richelieu e Mazzarino. Scrisse le Massime, raccolta di sentenze morali
improntate ad amaro pessimismo.
17 Umberto Eco, L’intervista, in
Alberto Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale, La Scuola, 1986
[178]
Alain Elkann, Interviste 1989-2000, Bompiani 2000
[179] Ibid.
[180] Ibid.
[181] Ibid.
[182] Ibid.
[183] Ibid.
[184] Ibid.
[185] Ibid
[186] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004
[187] Ibid.
[188] Claudio Sabelli Fioretti, Ormai siamo tutti come Lucrezia Borgia, in Corriere Magazine, 8 Settembre 2005, pag.42
[189] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio, 2004
[190] Ibid.
[191] Ibid.
[192] Ibid.
[193] Claudio Sabelli Fioretti, Ormai siamo tutti come Lucrezia Borgia, in Corriere magazine, 8 Settembre 2005, pag.42
[194] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio, 2004
[195] Ibid.
[196] Ibid.
[197] Ibid.
[198] Claudio Sabelli Fioretti, Silvio Berlusconi? È la pin-up di Bruno Vespa, in Corriere Magazine, 25 Agosto 2005, pag.46
[199]
Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004