Nelle carceri si sta male. Va detto, per evitare qualsiasi equivoco. Ma non per colpa del coronavirus. Quando è scoppiata la pandemia c’erano pochi posti al riparo da ogni rischio. Fra questi i conventi di clausura e i penitenziari. Tanto è vero che il rimedio pubblicizzato e imposto era: state a casa e non uscite se non per motivi gravi ed urgenti. C’è da dire che le carceri italiane fanno quasi tutte schifo. Una incredibile concentrazione per metro quadrato. L’apoteosi dell’assembramento. Ma anche molte famiglie italiane sono compresse in pochi metri quadrati. Moglie, marito, suocera, nonno e un grappolo di figli in minibilocali. Ci hanno smarronato da settimane con la giusta tiritera: lavatevi le mani e non andate a passeggio. Quindi chi meglio dei carcerati? Nella disgrazia della privazione della libertà, i prigionieri godevano del privilegio di non dover compilare la autocertificazione per andare a trovare gli affetti stabili. Bastava sanificare, controllare le guardie carcerarie e qualche tampone ogni tanto. Invece no. Le anime belle si sono mobilitate: fateli uscire. Ma il problema è l’opposto. Dalle carceri italiane non bisogna farli uscire. Bisognava non farceli entrare.
PS: Secondo voi è già partita la campagna per costruire nuove e più moderne (più vivibili) carceri? Sì? No?
“La privacy, la privacy!” Tutte le volte che un interesse privato viene in qualche maniera minacciato si leva alto il grido di allarme. “La privacy!”. La privacy è il diritto alla riservatezza della vita privata di una persona. Ma è un valore assoluto, applicabile sempre e ovunque? Non è così facile. Pensate che non si sa nemmeno come andrebbe pronunciata la parola. Praivasi? Privasi? Boh. Io odio persino la parola privacy. Perché ognuno pensa che la privacy sia sempre e soltanto quella sua. La mia privacy è la privacy. La vostra privacy? Chissenefrega. Comunque la privacy, di chiunque sia, è una grande rottura di palle, spesso reclamata per difendere oscuri interessi, spesso inutile, quasi sempre invocata per non dire di sé cose imbarazzanti. O permettere che vengano dette. Un concetto pieno di contraddizioni. L’attricetta che cerca di affermarsi chiama i fotografi nel ristorante dove sta cenando con un produttore famoso. Ma quando diventa un’attrice famosa li allontana con disprezzo rivendicando il diritto alla riservatezza della sua vita. Ognuno ha la sua idea di privacy, esistono mille idee di privacy. Il giudice in tribunale: lei si dichiara colpevole o innocente? “Vostro onore, sta scherzando. E’ questione di privacy”. Il padrone in azienda: che cosa sta guardando sul computer? Sta per caso giocando a burraco? “Non si permetta! Ho diritto alla privacy”
La cosa bella è che tutti i giorni, a tutte le ore, la nostra privacy è continuamente violata a nostra quasi insaputa e nella totale indifferenza della gente. I cookies ci spiano e raccontano a chi vuole pagare tutte le nostre abitudini. Google, Facebook, tutti i social scandagliano la nostra vita telematica, si impadroniscono delle nostre malattie, dei nostri gusti, delle nostre voglie, sanno se siamo pedofili, se siamo infedeli, se ci piace la Nutella, se siamo litigiosi, se crediamo in Dio. Sanno tutto. Eppure, adesso, molti di noi si scandalizzano se una “app” un po’ invasiva vuole impadronirsi dei nostri movimenti per monitore se e quante volte usciamo. Da notare: stiamo parlando di una cosa probabilmente anonima e sicuramente a base volontaria. Cioè: io metto questa “app” (Immuni) sul mio cellulare (se voglio) e la “app” segnala chi incontro e per quanto tempo (in forma anonima). Eh no amici miei. Mi appello alla privacy. Cioè, da una parte una fisima, dall’altra decine di migliaia di contagi mortali da combattere. Non c’è niente da fare, mi viene spontaneo: chissenefrega della privacy.
Sono più importanti i rapporti di parentela o quelli di amicizia? Non si parla d’altro. Ora che la fase 2 ci dà un po’ più di libertà è giusto consentire di andare a trovare il cugino del cugino di tuo padre e vietare di andare a trovare il tuo più caro amico? Sulla Repubblica deverdellizzata è comparso ieri un articolo di Michela Marzano, in cui la filosofa-politica si impegna in un intenso elogio dell’amicizia, da Cicerone in poi. “Gli amici si scelgono, a differenza dei familiari che si ereditano o subiscono, e con i quali, spesso controvoglia, si cerca di trovare il modo di convivere”, scrive la filosofa-politica. Come darle torto? D’altronde è quasi sicuro che il tuo più caro amico ti è anche molto simpatico mentre lo stesso non si può dire con certezza del cugino del cugino di tuo padre. C’è da dire che non è obbligatorio andare a trovare il cugino del cugino di tuo padre e che puoi anche rimanere a casa come hai fatto finora. Ma vediamo di approfondire. Citando Tito Pomponio Attico e perfino Aristotele, Michela Marzano scende in campo a difesa dei valori dell’amicizia e attacca gli estensori del decreto che favorisce i congiunti e solo loro. “Come si fa a trovare la forza per ricominciare a scommettere sull’esistenza quando viene negata la possibilità di stare accanto alle persone più fidate?”, scrive Michela Marzano. “I legami più importanti sono proprio quelli amicali”. E poi conclude: “Peccato che nessuno, tra gli autori del documento che doveva chiarire chi si potrà incontrare da domani, si sia andato a rileggere i testi del padre della filosofia morale”.
Peccato veramente. Resta un problema. Come si deve comportare il carabiniere di fronte a chi gli dice: “Vado a trovare un amico”?
Deve controllare. “Ma lei vuole veramente bene a questo amico?”. Oppure: “Da quanto siete amici?” Oppure: “Ha una dichiarazione del suo amico che dice che è affettivamente il suo più caro amico?” “Non è che magari è un amico così così”. “La vostra è un’amicizia sincera?” Oppure: “Non è che magari oggi finite col litigare?” Il punto è proprio questo: tu puoi andare a trovare tua suocera anche se la odi. Perché tua suocera è tua suocera. E’ scritto negli atti amministrativi. Ma gli amici no. L’amicizia è eterea. Incontrollabile. Non esiste uno stato di amicizia come esiste uno stato di famiglia. Non esiste l’albo degli amici, come esiste quello dei commercialisti.
Però. Attenzione. In realtà esiste l’albo dell’amicizia: Facebook. Ecco, io lancio la mia modesta proposta. Si può andare a trovare solo gli amici di Facebook. Io ne ho 5 mila. Uno al giorno, vado avanti per 14 anni. E chissenefrega del cugino del cugino di mio padre.
Leggo e trascrivo un piccolo paragrafo dell’articolo di Eugenio Scalfari sulla Repubblica di oggi.
“Ho ricordato la scorsa settimana che ciascuno di noi fin da quando vive se stesso è agganciato al proprio Io che determina il se stesso di Cartesio in una fase nella quale la libera servitù di Étienne de La Boétie ha un privilegio storico che dovrebbe insegnarci molte cose. Ne ho parlato con Conte. Mi è sembrato sensibile all’insegnamento di Montaigne e di Étienne de La Boétie.”
Dite quello che vi pare. Io adesso sono già più tranquillo.
E’ morto Nicola Caracciolo di Castagneto. Ne danno il triste annuncio sulla Repubblica Ondina, Allegra, Ginevra, Argenta, Jacaranda, Amparo, Domitilla, Lapo, Lupo, Leone, Orso ed Oceano. Niente di meglio dei necrologi per capire le differenze sociali.
Appena arrivato nell’antica capitale del Vietnam che sia chiama Huè, compro una maglietta per la mia amica Elena che, essendo di Napoli, ed essendo una frequente utilizzatrice dell’esclamazione Uè, apprezzerà sicuramente. Il vietnamita è una lingua strana. Una volta utilizzava gli ideogrammi cinesi, retaggio della dominazione della Cina. Ma piano piano, grazie al lavoro di un missionario gesuita, Alessandro de Rhodes, durante la dominazione francese, si passò alle lettere latine che avevano il vantaggio di rappresentare l’effettiva pronuncia. I vietnamiti ci aggiunsero una serie di accenti, apostrofi, cediglie e segnetti vari per variare I toni. Il risultato è che noi italiani ascoltiamo delle parole che non capiamo ma ogni tanto crediamo di capire. Le parole vietamite sono monosillabiche. Quindi non esistono accenti come i nostri che rendono le parole sdrucciole, bisdrucciole, tronche e piane. Perciò per I vietnamiti è difficile, quando imparano l’italiano, non sbagliarlo. Luna, la nostra guida, parla bene l’italiano ma non becca un accento. Dice “ètnia” e “andàvamo” e “passeggiàno” e noi, che siamo ipocriti ma cafoni, facciamo finta di non ridere ma ridiamo dentro.
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I vietcong erano dei fantasmi, delle ombre. Quando scappavano scomparivano nel nulla. Improvvisamente. Quando attaccavano comparivano improvvisamente. Dal nulla, materializzandosi senza che gli americani capissero come facevano. Tecnica mordi e fuggi. Gli americani sapevano che i loro rifugi erano sottoterra, ma mai avrebbero immaginato che le gallerie si estendessero per centinaia di chilometri. Vere e proprie città sotterranee, con ospedali, mense, cucine, sartorie, officine meccaniche, prese d’aria, pozzi di acqua, armerie, spesso scavate proprio sotto le caserme nemiche, a otto dieci metri di profondità. Vicino a Saigon, a Cu Chi, i vietcong avevano scavato 280 chilometri di gallerie ma gli americani non riuscivano a trovare gli ingressi e, quando li trovavano, rimanevano intrappolati in trabocchetti tremendi e crudeli. Cominciarono ad usare i cani. Ma i vietcong spargevano pezzi di uniformi dei soldati americani ed i cani rimanevano disorientati e tornavano indietro a cercare i loro “padroni”. Gli ingegneri vietcong erano veramente ingegnosi e furbi. I camini per fare uscire il fumo delle cucine erano lunghi abbastanza da farlo dissipare e renderlo simile alle nebbie. Le prese d’aria erano nascoste in vecchi termitai. Il reticolato delle gallerie era immenso, i vietcong stessi avevano bisogno di guide per muoversi e non perdersi, muovendosi carponi lungo scale e sentieri sotterranei senza sbagliare un bivio.
Puntata commovente e toccante del nostro viaggio in Vietnam. Ma prima debbo dirvi qualcosa dell’agenzia Viaggi Solidali che ha organizzato il tutto. Con loro sono già andato in Zambia, in Mali e in Argentina. Le loro mete sono sempre molto interessanti e i loro programmi sono sempre molto attenti all’aspetto sociale prima che a quello turistico. Viaggiando con loro si riesce ad avere una idea reale del Paese al di là degli stereotipi. Con Viaggi Solidali ho visitato missioni, progetti di sviluppo di realtà locali. Ho mangiato per terra nelle case dove vivevano ragazzi che avevano avuto problemi di droga. Ho dormito e mangiato in comunità create da preti coraggiosi o da volontari di vare ong.
Per lasciare il profondo nord e procedere verso il sud abbiamo scelto il mezzo che meno vi aspettereste: le cuccette. Siamo saliti su un treno notturno alla stazione di Hanoi e dopo solo 13 ore siamo arrivati nel Vietnam centrale, dalle parti di quel 17 parallelo che divise per tanto tempo il Nord dal Sud, nella città di Hué, antica capitale del Vietnam dove gli imperatori della dinastia Nguyen, governarono per 143 anni (tredici imperatori) nella loro splendida Citta Imperiale. Il viaggio in treno non va ascritto nella categoria delle esperienze memorabili.
Secondo Annalia l’uomo non è fatto per dormire per terra. Infatti Dio, nella sua infinita bontà, non l’ha fatta nascere in Vietnam del nord (con la minuscola, mi raccomando). In Vietnam del nord (ma anche in tanti altri posti nel mondo) allo stato attuale le persone mangiano per terra sulle stuoie e dormono per terra al massimo su un sottile strato di tessuto (diciamo un futon). Per Annalia il materasso è la prova della superiorità dell’uomo sull’animale. Per Annalia appena l’uomo di Neanderthal si è alzato su due zampe è subito corso da Eminflex a comprare un materasso Memory.