di Pennina, da Bds
Il figlio di Adriano Sofri e il figlio di Luigi Calabresi fanno due fuggevoli chiacchiere con il Barbiere della Sera
L’ultimo no lo hanno detto all’Espresso quando il direttore Daniela Hamaui ha chiesto loro di scrivere due articoli sui rispettivi padri, il commissario Luigi Calabresi e quello che la giustizia considera uno dei suoi assassini, Adriano Sofri.
Mario Calabresi lavora a Repubblica e Luca Sofri al Foglio. Di mestiere scrivono entrambi. Ma su questo argomento, di scrivere non hanno voglia.
Racconta Luca Sofri: “Dall’Espresso mi hanno chiesto un pezzo in stile familiar-personale su come io e la mia famiglia abbiamo vissuto questi anni. Con il minimo di pudore che mi rimane sui fatti miei ho detto no. Per discrezione. Non è il genere di cose di cui voglio occuparmi”.
Mario Calabresi racconta la stessa storia: “L’Espresso mi ha chiesto un pezzo per ricordare mio padre. Io non avevo voglia di tornarci sopra. Inoltre, visto che lavoro per il gruppo, non mi sembrava giusto mescolare il lavoro con una questione personale. Non ho mai scritto delle mie vicende private”.
Tutto normale, tutto ovvio. Eppure, come ognuno puo’ comprendere, non puo’ mica finire qui. Che lo vogliano o no (e certo avrebbero preferito di no), Luca e Mario sono legati per la vita e non c’è bisogno di spiegare perchè. Così, qui al Barbiere, abbiamo deciso di insistere un po’.
Possibile che negli anni non abbiano mai riflettuto sulla natura dei loro rapporti? Che non abbiano mai parlato, confrontandosi? Che non si siano mai interrogati sulla situazione che vivono ed hanno vissuto? Molto cortesemente, entrambi hanno risposto a un paio di domande.
“Qualche anno fa ci chiesero di fare un’ intervista parallela – racconta Calabresi – io e Luca ci sentimmo prima e dicemmo tutti e due di no. Adesso capita di incontrarci, ogni tanto. Certo, abbiamo anche parlato del fatto che siamo uniti, nostro malgrado, dalla stessa storia”.
Luca Sofri conferma: “E’ successo che i giornali abbiano cercato di metterci a confronto. Non è una situazione facilissima. Quello che è toccato alla famiglia Calabresi è molto peggio di quel che è toccato a noi. Incontro spesso Mario a Repubblica. Ci salutiamo e scambiamo due chiacchiere. Il nostro rapporto è cordiale e curioso, ma forse un po’ imbarazzato. Un non detto enorme grava su di noi”.
“Ci siamo trovati d’accordo – continua calmo Calabresi – sul fatto che questa storia l’abbiamo subita, soffrendo sia io che lui in modi diversi. Non eravamo noi i due da raccontare. Chiedevamo che il nostro privato venisse rispettato. Non è facile farsi una propria vita essendo guardati dagli altri per il cognome che porti. Ciò che facciamo, lo facciamo per quello che siamo. Senza l’etichetta ‘figlio di’”.
“Non voglio sembrare poco delicato nei confronti della famiglia Calabresi, ma i nostri rapporti sono un’invenzione giudiziaria prima, mediatica poi. Non sarebbero mai esistiti altrimenti – conclude Sofri; “Non ho mai voluto far niente che potesse suonare come un tentativo di richiesta di indulgenza. Questo già durante il processo. Adesso ancora di più, nel caso la grazia per mio padre dipendesse da un giudizio della famiglia Calabresi”.
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