da Piergiorgio Welby
Il nostro termine “veritas” non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Il greco Alètheia, viene da lanthano che vuol dire “coprire”. Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell’oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l’alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt’altro che verità. Vuol dire, in origine, “fede”; fede nel significato più ampio della parola, tant’è vero che in russo ad esempio vara vuol dire fede. L’anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho fede, per cui l’assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L’altra verità è quella che Leibniz aveva chiamato la “verità di ragione”, per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente, distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l’una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un altro ambito; l’altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando.
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