“Non so come dire”. “Non si possono usare due pesi e due misure”. “Bisogna fare un discorso di un certo tipo”. “Il mondo è bello perché è vario”? Odio i luoghi comuni, le frasi banali. il parlare tanto per parlare. Arnaldo Forlani una volta disse: “Potrei parlare ore senza dire niente”. Lui lo rivendicava con coraggio. Ma moltissimi italiani, giornalisti, scrittori, politici lo fanno senza accorgersene. È più forte di loro. Perché dire con poche parole comprensibili quello che si può dire con molte parole oscure?
Eccoci entrati nel regno del luogo comune, là dove ci lasciamo andare all’inutile, all’ordinario, al convenzionale. Per quelli come me, nati alla scuola del mitico direttore di Panorama, Lamberto Sechi, che consierava peccato mortale scrivere “l’apposita commissione”, l’abolizione del luogo comune è un riflesso naturale e ormai fa parte di noi stessi. Lamberto ci vaccinò contro il luogo comune. Io, dopo il vaccino, mi sono portato più avanti. Non avete mai letto, né mai leggerete nei miei articoli frasi come “lo chef pentastellato”, “facevano bella mostra di sé”, “a larghe falcate”, “un pessimo whisky”, “è diventato virale”, “tra il lusco e il brusco”, “l’arbitro, severo ma giusto”, o parole come “manicaretti”, “giacchette nere”, “il generale inverno”, “il triplice fischio”. Non c’è niente di peggio che leggere “il bomber si coordina e insacca di prima intenzione, niente da fare per il pur bravo estremo difensore”. Credo di essere l’unico italiano che non ha scritto e nemmeno mai detto “il popolo dei fax”. Sono talmente talebano che, se uno mi spara una di quelle pippe tipo: “Io i libri li amo, li odoro, li palpo” mi viene l’orticaria. Quando in televisione un campione, dopo aver vinto, dice “Sono molto emozionato” mi verrebbe da prenderlo a schiaffi. Quando alla televisione compariva Carlo Cracco che diceva per l’ennesima volta “la mia cucina, il mio living, il mio bagno” rinnovavo ogni volta il giuramento che avrei preso a calci il primo mobile Scavolini che mi veniva a tiro. E poi ci sono gli aggettivi. Alcuni sono proprio insopportabili, tipo “fragile”, obbligatorio per una ragazza adolescente alle prese con le prime durezze della vita. Molti giornalisti e molti scrittori usano gli aggettivi come fossero concime da spargere nell’orto, o semenze da lanciare a spaglio sul terreno. I titolisti dei quotidiani cadono spesso in un trabocchetto. È stato trovato un cadavere in un canale e la polizia naviga nel buio? Titolo: “Cadavere nella roggia. È giallo”. Giallo. Cioè, è cinese? I libri, soprattutto i libri polizieschi, sono pieni di alcuni manierismi che purtroppo la gente tende a far suoi. “Mangiarono delle ostriche, innaffiate da un Philipponat Royale del 2007”. Ma chi è che innaffia le ostriche? Oppure: “Vado a casa, faccio una doccia e poi ti raggiungo”. Faccio una doccia? Che cosa ti fa pensare che io sia interessato alla tua igiene? E se dicessi: “Vado a casa, faccio la cacca e ti raggiungo?” Quando scrivo un articolo, in fase di editing, tolgo sempre preposizioni inutili, taglio avverbi troppo lunghi, elimino con l’accetta aggettivi non indispensabili. Non sempre mi riesce ma rimango dell’idea che l’articolo perfetto è quello completamente senza aggettivi. Mi sono convinto che questa sia la versione letteraria dell’opinione “calcistica” di Gianni Brera, il quale sosteneva che la partita perfetta è quella che finisce senza gol. “La città è sotto shock”. A volte “La Francia è sotto shock”. Basta un fatto di cronaca nera un po’ più cruento del solito per far partire lo shock. Un pazzo spara contro un tram? “Milano è sotto shock”. Generalmente è solo il giornalista a essere sotto shock. Perché da quando sono nato non ho mai visto una città sotto shock. Se fosse vero che la città è sotto shock, chiuderebbero i cinema, i ristoranti, le balere. La città è sotto shock quando parte la sirena dell’attacco aereo e tutti corrono nei rifugi. E forse nemmeno in quel caso. Possiamo essere sotto shock per la morte di un parente, di un amico, di un vicino di casa. I giornali hanno bisogno di immagini forti e ne hanno bisogno in fretta, prima che la pagina chiuda. Però esistono anche le eccezioni. I giornalisti bravi. Quelli che pensano prima di scrivere. Quando un pazzo uccise a palazzo di giustizia un giudice, l’avvocato e il socio pensai: “Ecco che parte lo shock, Milano sotto shock, la Lombardia sotto shock, l’Italia sotto shock”. Poi andai a leggere Piero Colaprico. Lui, giornalista di buon senso e accurato, scrisse la cosa giusta: “Centinaia di persone sono sotto shock”. Finalmente. Centinaia. Grazie Colaprico. Quanti giornalisti, quanti presentatori, quanti conduttori parlano per frasi fatte? Quante volte avete letto della “ragazza della porta accanto”? Che “è tutto un magna-magna”? Che il “vino rosso va in sangue”? Che “l’uomo non è di legno”? Che “gli africani vengono a rubare il lavoro agli italiani”?. Che i “figli sono pezzi di cuore”?. Sono i luogocomunisti, una razza che non si estingue mai, che si moltiplica e si autorigenera. Più luoghi comuni pronunciano, più sono contenti. Gli viene la pelle liscia, ingrassano, sorridono. Il tritacarne mediatico, la giustizia ad orologeria, la macelleria sociale, l’onestà intellettuale. Insopportabili. Gli italiani hanno improvvisamente perso la fantasia. Ma non eravamo un popolo di creativi? Leggo di plessi scolastici, di squadre che vincono e non si cambiano, di partite deludenti dal punto di vista tecnico e agonistico. Non ne posso più di chi dice con arguzia che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia. Odio le conventicole, i combinati disposti, quelli che fanno la differenza. Odio quelli che dicono alla fine della frase: “Punto!”
Poi esistono anche i casi contrari, quelli in cui i giornalisti si lasciano andare a frasi talmente poco banali che non si capisce nulla. Esempio. “Ciascuno di noi fin da quando vive se stesso è agganciato al proprio Io che determina il se stesso di Cartesio in una fase nella quale la libera servitù di Étienne de La Boétie ha un privilegio storico che dovrebbe insegnarci molte cose”. Capito? Parola di Eugenio Scalfari. Punto.
Tanto blaterare contro i luoghi comuni (altrui) poi si associa il giallo ai cinesi
Ti sembra che io blateri?
No, Claudio. Volevo essere ironico ma non mi è venuto bene. Pardon
Parafrasando, caro Claudio, quei pochissimi giornalisti rimasti a scrivere come si deve sono ‘perle rare’ 🙂
l’unica frase banale di cui non si può fare a meno: “la madre degli imbecilli è sempre incinta” ce ne sono troppo tanti!
secondo me il Lamberto avrebbe cannato il mitico accostato al suo nome
Hai ragione
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