…e, in occasione dei festeggiamenti per un anniversario importante, scrissi un articolo sul Fatto Quotidiano in cui raccontai i miei tre mesi alla Repubblica. Questo:
C’ero anche io. Si c’ ero anche io. Nella storia del giornalismo italiano io posso essere ricordato come uno dei fondatori della Repubblica. Avevo 32 anni. Ero un ragazzino, promettente ma ragazzino. E per di più disoccupato. Un tipo precoce, insomma. Avevo cominciato a fare il giornalista nel 1968, a Panorama. Dopo sei anni mi ero montato la testa ed ero andato a dirigere Abc. In pochissimo tempo avevo trasformato il settimanale del divorzio e delle tette in un organo di estrema sinistra.
Un disastro. Assunsi Lidia Ravera, Saverio Tutino, Giulio Mastroianni, Guido Passalacqua… Non ci volle molto: l’ attacco ai carabinieri, l’ articolo di Renato Curcio latitante e il tracollo delle copie. Il passo inevitabile fu la chiusura. Ma io ero uno dei pupilli di Lamberto Sechi, il mitico direttore di Panorama. Panorama era di Mondadori e Mondadori era il 50 per cento di Repubblica. Ricordo ancora come fosse ieri Eugenio Scalfari che venne a Milano ad assumermi e mi fece vedere il progetto, per convincermi.
Io mi sarei fatto convincere anche se mi avesse mostrato 64 pagine vuote. E accettai ancora prima che me lo chiedesse. Capo servizio dello sport. Era il novembre del 1975. Cominciammo a lavorare al progetto e poi, tra il dicembre e il gennaio, cominciammo a realizzare i numeri zero. Mai nessun giornale è nato con un numero così incredibile di numeri zero. Mi sembra che ne facemmo venti. Unico caso al mondo. Erano numeri del tutto normali, raccolta delle notizie, articoli di fondo, interviste. Era un dramma.
Facevamo interviste vere.
Andavamo da un politico, da un vip, da un calciatore, gli sfracassavamo i maroni per un’ oretta e alla fine lui giustamente ci chiedeva: “Quando uscirà l’ intervista?”. E noi dovevamo confessargli: “Non uscirà mai”.
A me piaceva il progetto di Repubblica. Per me non era abbastanza di sinistra ma potevo accontentarmi vista l’aria che tirava nei quotidiani italiani. E poi ci lavoravano tanti miti del giornalismo di allora. Per lo più socialisti ma erano di sinistra i socialisti, allora. Io lavoravo nella redazione milanese.
Proprio di fronte alla mia c’era la scrivania di Massimo Fini che ha raccontato in maniera fantastica il suo disagio l’altro ieri su queste stesse pagine. L’imbarazzo di Massimo potevamo leggerglielo in faccia. Non era il giornale per lui. Lui era un anarchico. Per vedere quanto stava male bastava osservarlo alla scrivania. Sembrava una pecora triste, sofferente, abbacchiata.
Non mi meravigliai quando ci disse che se ne andava. La Repubblica non aveva superato il periodo di prova. Quei tre mesi furono entusiasmanti, ma anche molto incasinati. Io ero capo servizio dello sport ma dopo qualche giorno mi dissero che lo sport non c’ era. La redazione era molto radical chic e lo sport, allora, non era né radical né chic. “E io?”, chiesi. Per farmi stare buono Scalfari mi disse che mi promuoveva vicecapo della redazione milanese.
Le cose funzionavano così: ogni due o tre giorni io e Gianni Locatelli, il capo della redazione milanese, prendevamo l’ aereo e andavamo a Roma per la riunione di redazione. La riunione di redazione era la classica messa cantata, però al contrario degli altri giornali la messa non era celebrata dal parroco ma dal papa in persona, Eugenio.
Parlava quasi solo lui, con incedere lento e pensoso.
Mentre parlava oscillava la testa a destra e a sinistra. Noi tutti eravamo lì ad ascoltarlo in adorazione. E se decidevamo di prendere la parola (io no, lo giuro, io non ho mai parlato, mai) lo facevamo oscillando anche noi la testa a destra e a sinistra. Ogni tanto squillava il telefono. Era il presidente del Consiglio, il segretario della Dc, il presidente della Repubblica.
Eugenio partiva con una sottile analisi della situazione politica e noi lì ad ascoltarlo, in religioso silenzio mentre ammaestrava i suoi interlocutori. Poi si decideva che cosa avremmo dovuto mettere sul numero zero dell’ indomani. L’ indomani sul numero zero non c’ era nulla di quello che avevamo deciso. Allora, pazientemente, Gianni Locatelli telefonava a Eugenio ed Eugenio gli spiegava che “caro, è vero, avevamo deciso diversamente ma poi la sera siamo andati da Marta e nel dopocena, chiacchierando, abbiamo deciso di cambiare tutto”.
Sospetto che sia stato in un dopocena da Marta che fu decisa la morte dello sport e che sia stato in una serata analoga che fu decisa la resurrezione dello sport. Quando Eugenio mi comunicò la resurrezione dello sport io dissi: “Bene, e chi lo fa?”. Risposta: “Tu”. Ed io dissi: “Io no, io sono stato promosso vicecaposervizio della redazione milanese, non puoi retrocedermi a capo dello sport”.
Ero un ragazzino sprovveduto e rompicoglioni. Cominciai a sbuffare. E quando, dopo tre mesi dal primo numero, un gruppo di dissidenti dell’ Espresso, capitanato da Lino Jannuzzi e Carlo Gregoretti, abbandonò i vecchi amici per andare a rifondare Tempo Illustrato, io andai con loro. Una decisione imbecille.
Ero un ragazzino rompicoglioni e avventato. Mi bastarono pochissimi giorni per capire la sciocchezza che avevo fatto. Telefonai a Gigi Melega, il redattore capo, mio grandissimo amico, e gli dissi: “Gigi, vengo a Roma a piedi con il capo cosparso di cenere e i ceci sotto le ginocchia. Devi dire a Eugenio che gli chiedo scusa e voglio tornare”.
Gigi era simpatico, generoso e anche molto ottimista. Mi disse: “Claudio, non preoccuparti, vado a dirglielo subito, aspetta al telefono, non attaccare e prepara la valigia”. Rimasi al telefono e sentii i suoi passi, tip tip tip, raggiungere l’ ufficio accanto. Dieci secondi. Gli stessi passi, tip tip tip, lo riportarono indietro. Pensai: “È fatta”. Gigi prese la cornetta in mano. Io, ansioso: “Che cosa ha detto?”. E Gigi: “Ha detto: neanche morto”.
Eugenio era fatto così. Era rancoroso, permaloso, malmostoso. Se l’ era legata al dito. Voglio raccontare un episodio. Un giorno dalla segreteria arrivò un messaggio: “Il grande capo Dalla Chiesa vuole parlare con te”. Lui, presuntuoso com’ era, capì “il grande capo della chiesa” e pensò che il Papa volesse parlargli.
Passò i giorni seguenti chiedendo a tutti come avrebbe dovuto vestirsi per l’ evento. Fu talmente insistente che i colleghi capirono l’ equivoco e dovettero spiegargli che lo aveva invitato il generale, non il pontefice. Eugenio, scusami, non avrei dovuto raccontare l’ episodio. Ma sono permaloso anch’ io e me la sono legata al dito.
l’ho riletto con piacere
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