da Muin Masri
Fuori da questo mondo ci sta tutto, tutto e altro ancora, come in un bordello al di là delle trincee, un insulto tira l’altro: Trump, Assad, Putin, Erdogan, Duterte, Orban, Al-Sisi, Al-Baghdadi. Dentro i social network ci sta tutto, tutto e altro ancora, come in un manicomio senza muri, un’offesa tira l’altra ma non facciamo nomi per non dimenticare qualcuno.
Su questo palcoscenico chiamato Sanremo ci sta tutto, tutto e altro ancora, come nei film in bianco e nero d’inizio secolo scorso senza trama e i costumisti sono un po’ retro e un po’ futuristici, dove i personaggi con i loro aspetti così buffi e caricaturali possono recitare tutto: un amore mancato, una libertà oppressa, una vita spericolata, un uomo vestito da donna, una donna vestita da prete, una suora senza veli, un lavoratore malato di lavoro premiato, un giovane sano di mente disoccupato, l’unica ostetrica ancora in attività, un nonno supereroi per caso, un’artista che canta un suicida che canta Ciao amore, e il pubblico tirato a lucido come il tacchino il giorno del ringraziamento applaude sempre. In questo belpaese e per una settimana tutti cantano Sanremo, poi tutto come prima, più di prima, come in un teatro sperimentale tra avanguardia e tradizione: documentare l’ennesimo salvataggio al largo di Pantelleria, ascoltare le telefonate a sorpresa di Papa Francesco, subire le prese in giro di quel finto profugo freestyle Bello Figo, assistere indifferenti al duello a distanza tra PD-PD e Belpietro-Feltri, salvare il soldato Lapo e la piccola fiammiferaia Raggi, spiare Berlusconi dal buco della serratura e sognare un mondo migliore, senza nani da giardino.
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