ROBECCHI, CUORE, CHE NOSTALGIA
In quell’immenso archivio che è Internet ho scovato questo articolo di Alessandro Robecchi (Robeck per gli amici). Ve lo ripropongo, così, per un attacco di nostalgia e di passione politica.
pubblicato in BUONE LETTURE, Varie & eventuali
E’ uscito ormai da un mesetto NON AVRAI ALTRO CUORE ALL’INFUORI DI ME (Rizzoli, Bur, pagg. 309, euro 27,50). Si tratta di un volume celebrativo di quella esperienza umana, satirica, giornalistica, psichiatrica eccetera eccetera che fu Cuore, il settimanale di resistenza umana con la carta verdina. Il reducismo cuorista mi ha sempre fatto un po’ impressione, ma in fondo, per una vlta, perché no? Il libro raccoglie un’antologia di quello che fu Cuore, alcune prime pagine, molte vignette, tante storie e alcune foto di quando eravamo giovani. Come caporedattore di quel foglio verdino mi hanno chiesto qualcosa che somigliasse a un ricordo, forse persino a un’analisi, un commento, o non so. Io gliel’ho mandato. Loro lo hanno pubblicato. Voi potete leggerlo qui sotto. Non è una ricostruzione, non è una nostalgia, non è una confessione. E’ quello che mi pare sia successo. Tra parentesi, è stato divertente. Il pezzo è uscito con il titolo: COMPAGNO ROBECCHI, TE NE VAI CHE IL SOLE E’ ANCORA ALTO? Buona lettura, se vi va.
Questa è la storia di quando ci hanno mangiato i coccodrilli, ma siamo qui a raccontarla, e i coccodrilli ci fanno ancora ridere. Se devo dire i Cuori che ho conosciuto sono parecchi e buoni tutti. Si noti qui la classica tenerezza per quello che è successo vent’anni prima, che dunque è tenerezza per se stessi, prima di tutto, e questo si sa. Ma sono proprio quei tanti anni, quella distanza di sicurezza, a permettere di vedere in quell’esperienza-matrioska che fu Cuore, un filo vero e distinto, un suo perché. Ricordo il Cuore clandestino, che stava nell’Unità, ricordo Michele nei corridoi di viale Fulvio Testi che mi chiedeva una sostituzione estiva, e poi di correre con loro, Aloi, Paterlini, il Tato Banali, gli altri che giravano intorno, che via via si aggiungevano, nelle stanze al neon della tipografia dove stavano ancora certe lynotipe ed è come oggi dire un grammofono, un sarcofago, un tabarin. Tutto arrivava via fax, la pattuglia grafica montava enormi computer per l’impaginazione, ma ancora si attaccavano figurine sul tavolo luminoso. Si faceva per ridere e si rideva noi per primi, “piace a noi” era l’unico marketing ammesso, e ancora oggi credo sia l’unico marketing possibile. Si segnavano i voti del Giudizio Universale su un quadernone, una crocetta per voto, La figa, La fine di Andreotti, Vedere come va a finire.
Non era soltanto sublime artigianato, c’era anche un elemento fortissimo che ancora mi stringe il cuore: c’era uno splendido isolamento, una preziosa aristocratica distanza tra noi buffoni e il mondo che veniva sbeffeggiato. Il marziano di Flaiano, il povero Gurb di Mendoza, non a caso sono extraterrestri gli osservatori più candidi, i loro occhi sono distanti e vedono meglio l’assurdo, feroci ma non cinici. Noi e loro (il mondo), e nel mondo quei coccodrilli che ci davano tutto: il Chissenefrega, il Mai più senza, il Cronaca vera. I giornali e l’informazione che noi passavamo al setaccio fino fino, per distillarne la sopraffina (fina) idiozia. Molti occhi: il paradosso, la satira, ma anche Garrone, e pure l’affresco spaventoso-verista di un Mannelli, e il nonsense à la Perini, il surrealismo vinciniano, l’agile carpiato del paradosso à la Celi, e tutti gli altri e di più, ognuno posava il suo occhio, e ogni occhio era diverso e componeva un’immagine nitida: noi e loro. E tra questo, e di questo, cose oggi impensabili e dense, Che cos’è il comunismo, che a leggerli oggi, quei pezzetti, mette i brividi, e le migliori firme e teste del regno scrivevano, seriamente, sul giornaletto dei buffoni. L’elenco è infinito e non si può comporre alla leggera: c’era la sensazione di tenere insieme infiniti linguaggi che guardavano laggiù, quegli ometti che si agitavano e che erano la politica, l’Italia, gli italiani, la vita, e tutto il suo tragico e ridicolo agitarsi. A un certo punto – ci si diceva esterrefatti tra noi – ci trovavamo in mano un settimanale da decine (pure centinaia) di migliaia di copie, un giornale politico, con le sue adunate, le sue feste, il dibattito, lo psicodramma e un’aura di geniale impunità, faccia da schiaffi e pensieri forti. Questa la filosofia, credo, penso, mi ricordo. E a rivedere oggi quelle pagine non si può capire dove eravamo veloci noi, pugili fulminei, o dov’era immobile il paese, visto che già papi e vescovi si occupavano di feti e embrioni (come oggi), visto che molti avevano la faccia come il culo (come oggi). Visto che “Siamo d’accordo su tutto basta che non si parli di politica”, titolo del primo numero di Cuore settimanale autonomo, dedicato alla nascita del Pds (ma se lo leggete ora per la nascita del Pd, non è… come oggi?). Forse c’è da preoccuparsi se una battuta fa ridere uguale vent’anni dopo, specie se non è merito della battuta, ma colpa del fatto che le cose su cui ridiamo sono ancora lì, tutte quante. Ma poi c’è la tecnica, grande cosa e grande lezione. Perché c’è tutto un lavoro intenso, dietro il fare ridere e il ridere di, che è un certosino sistemare sensi e sfumature, un cercare battute, un farle funzionare, un artigianato anche qui, con l’obbligo di metterci senso: una buona battuta con cui non sei d’accordo non è una buona battuta, e questa è etica, né più né meno. Era una lingua. E i coccodrilli cominciarono a mangiarci. Un pezzettino qui, un pezzettino là, la nostra lingua da indiani veniva usata dai cow-boys. Chissenefrega, ora, lo scrivevano tutti. Per rendersi conto di quanto ci hanno mangiato i coccodrilli basta cercare un quotidiano italiano di vent’anni fa e confrontarlo con lo stesso quotidiano oggi. Non solo la satira, le battute, le vignette, i corsivi precisi come bisturi, ma tutta quella lingua e quelle occhiate da marziani, e quell’armamentario di trucchi, si sono travasati nei giornali, ci rubavano tutto, le nostre armi in mano al nemico. I coccodrilli ci mangiavano, e forse tra noi ce lo dicevamo, o forse lo sentivamo soltanto, ma Repubblica titolava: Belzebù, e parlava di Andreotti, e si provava un certo brivido: ma noi, dunque, che ci stiamo a fare? Il Cuore di Sabelli Fioretti cambiò strada. Giornalismo. Per molti di noi (in redazione, tutti giornalisti), un’astrusa volgarità. Dopo esserci fatti mangiare dai coccodrilli si diventava un po’ coccodrilli anche noi. Ed era pure divertente, nuovo, eccitante, una nave corsara. Niente più splendido isolamento, niente più marziani. Andai (reportage) a una cerimonia triste di sottogoverno per scriverne col solito ghigno, e una platea di agghindati post-fascisti accolsero “l’inviato di Cuore” con un applauso: che bello, c’era anche il satirico, si sentivano importanti. E questo doveva far capire che si era vicini alla fine, che il filo su cui si camminava era sempre più esile e stretto. Come quando quello che hai preso in giro ti chiede la vignetta in ricordo. Ecco, li sentite i denti del coccodrillo? Se potesse parlare il coccodrillo ti direbbe: visto, amico?, non sei più un marziano. Poi, tutto si sciolse. Calavano i lettori, calavano le idee, calavano sulle teste di tutti tempi più piatti, stanchezze. Michele dice che quelle così lì sono come lo yogurt e hanno la data di scadenza già scritta. Anche chi non voleva scadere, sotto sotto lo sapeva, ed è uno scherzetto lasciarsi quando non ci si ama più, ma non è facile farlo quando si è ancora invaghiti. Fu uno shock restare senza Cuore, ma chissenefrega, tutti sopravvissero e andarono a far danni altrove, sui giornali, in tivù, nei libri, nel web, nel mondo selvaggio dei coccodrilli, restandone sempre un po’ esterni e laterali, e dunque un po’ liberi. E poi, quando il passar degli anni rimpicciolisce e ingigantisce alla sua maniera, come una lente matta, capita di ripensare a quell’avventura politica e umana e professionale e altro, con un ghigno di cinico, affettuoso e sconsiderato affetto. Perché siamo stati mangiati dai coccodrilli, ma siamo ancora vivi, e i coccodrilli sono se possibile più scemi di prima. Tié. Esco ogni tanto dal mio studio, da una redazione, da uno studio tivù, da un ufficio con la voce del Tato Banali nelle orecchie: compagno Robecchi, te ne vai che il sole è ancora alto! Appunto, è ancora alto. Bene. Non è bellissimo rimanere ancora un po’ marziani?
Cuore, Robecchi
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