da Gianni Guasto
X è un ragazzo di seconda media, il cui padre, disoccupato, si è suicidato otto mesi fa. X non va bene a scuola, e l’anno scorso, un paio di mesi dopo la morte del padre, sono stato costretto a intervenire presso la scuola perché non fosse bocciato. Una delle obiezioni che allora sentii fare da un paio di insegnanti fu che X era un cattivo studente “anche prima della morte del padre”. Oggi Milena, l’educatrice che si occupa di lui, mi riporta una frase pronunciata in sua presenza dal professore di ginnastica: “X è un pessimo studente, e non mi dica che la cosa dipende dalla morte del padre. Otto mesi dopo, il problema non c’è più. Io lo so perché sono padre”. Mentre Milena parla, mi torna in mente Giancarlo Casseri, l’assassino razzista di Firenze, e mi chiedo chi lo abbia aiutato a diventare così.
* Alleva corvi e ti caveranno gli occhi
si, come se il suicidio un padre di famiglia lo decidesse dall’oggi al domani… e vabbé… questo é il mondo che siamo riusciti a regalare ai ragazzi… e chissá i ragazzi cosa nesapranno fare; non so perché, il presagio non è buono…
Non conoscendo il caso in questione posso dire poco. Aggiungo pero’ che durante l’universita’ ho vissuto in un posto dove la meta’ dei ragazzi aveva un genitore morto (madre o padre, per motivi diversi). Probabilmente alcuni portavano ancora qualche segno, altri no. Ma se la sono cavata piu’ o meno tutti. In ogni caso, non credo che bocciare un ragazzo sia come mandarlo alla gogna. Bisogna anche ammettere che in Italia spesso (questo probabilmente non e’ il caso) si tende ad essere troppo comprensivi verso ogni tipo di problema dello studente.
Naturalmente, i casi sono moltissimi, e io stesso avrei da raccontare su X molte cose che, per ovvie ragioni, non posso dire. Non penso che X non possa cavarsela: anzi, stiamo facendo il possibile. Ma è impressionante constatare la superficialità, l’anestetizzata idiozia di persone che avrebbero il compito di capire, e che sparano giudizi a vanvera, incuranti del dolore che produce una terribile ferita ancora aperta. Con ciò, intendo dire che non è una bocciatura il disastro che io temo: è la percezione della sordità di chi dovrebbe ascoltare, la disperazione di non poter condividere il dolore con qualcuno che sembra importante. La disperazione genera rabbia, e la rabbia può diventare cronica; come la stupidità di certi educatori.
Caro Gianni, capisco in toto il tuo punto. Prova a seguire la mia provocazione pero’: in che misura un insegnante deve considerare la compassione e la comprensione a scapito del freddo giudizio?
Innanzitutto, la parola “compassione” non mi piace. Preferisco si parli di “rispetto” (ciò che qui manca vistosamente). Credo invece che ci sia bisogno di “comprensione”, non nel senso di “indulgenza” ma per indicare l’opposto del fraintendimento che sorge da una lettura superficiale e becera delle grandi tragedie emotive, che, quando accadono in adolescenza, rischiano di segnare l’intera vita. Quel professore è persona sprovvista di intelligenza emotiva: pensa soltanto alla pretesa di quantificare la durata di un lutto, e alla frase priva di senso “io lo so perché sono padre”. Un ragazzo così duramente colpito e così gravemente incompreso può diventare una bomba pronta ad esplodere. Questo intendevo; di fronte a tali problemi, l’efficienza performativa perde importanza.
Dire “io lo so perché sono padre” è una stronzata totale, e siamo d’accordo. Da quanto capisco, tu ti occupi del caso singolo e lo rapporti ad una situazione più’ grande (la bomba pronta ad esplodere) mentre il prof. lo rapporta ad un micromondo (la classe, i voti). Dici che dopo 8 mesi non si sono visti miglioramenti. 10 sarebbero sufficienti? O forse 12? E inoltre, il ragazzo era uno studente modello prima per crollare poi o naviga a vista verso la sufficienza? Ripeto, capisco il tuo punto di vista ma credo che il ruolo dell’insegnante lo costringa a ragionare (anche o soprattutto?) in termini performativi.
Penso che, nel caso in questione, i comportamenti degli adulti siano corresponsabili del perdurare e persino del peggiorare dei problemi performativi (oltre che di quelli affettivi). Però, non dimenticare che durante l’adolescenza la scuola è molto di più di un corso di formazione.
Sono d’accordo, e’ piu’di un corso di formazione. E nel caso in questione, il contributo di psicologi e altre figure e’ fondamentale. Tralasciando un attimo il caso specifico, tu sei sicuro che spetti all’insegnante renderlo piu’di una formazione? Ho avuto insegnanti (e piu’ tardi, supervisori e capi) splendidi e pieni di umanita’, ma a scuola e sul posto di lavoro mi hanno dato molto poco. Ho avuto una mamma docente al liceo classico e ho respirato certi discorsi e atmosfere per anni. Alla fine degli studi si presuppone che un ragazzo sia stato dotato degli strumenti necessari per il passo successivo (la conoscenza, le competenze). Spesso non e’ cosi’, i rapporti OCSE/PISA parlano da soli. Vista da questa prospettiva (e sempre provocando) non era forse meglio bocciare il…
Sarebbe meglio bocciare se si desse qualcosa in cambio, distinguendo l’insegnamento dalla relazione che compete a chiunque sia coinvolto in un processo educativo. Invece, molti insegnanti ritengono di dover essere lì soltanto per svolgere il programma. Da questi, che non sono necessariamente maggioranza, nemmeno il diritto di star male ti è riconosciuto.
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