da Pier Franco Schiavone, Milano
Noi bambini li ammiravamo. Quando era tempo di fiere o in prossimità di importanti feste religiose, nel mio paese in Molise, si materializzavano, per la gioia dei panettieri, come dal nulla. Le carovane arrivavano sempre di notte o di mattina prestissimo. Gli uomini attraversavano il paese su cavalli che a noi, abituati ai muli e agli asini, sembravano alti come montagne e loro, cavalieri senza sella, da lassù, ci apparivano come guerrieri di cui immaginavamo, nei giochi, le gesta. Indossavano abiti in velluto, stivali e cappellacci, anche d’estate, e impugnavano un frustino di membro di toro con cui martoriavano le terga dei cavalli. Uno di loro un giorno m’invitò a salire in groppa, rifiutai per paura del cavallo non dell’uomo. Le donne, sempre a piedi, scalze, giravano il paese senza chiedere l’elemosina, a volte bussavano alle porte per vendere collane; approfittavano dei medici locali per una visita ai loro neonati, costretti dentro grandi e sgargianti fusciacche che di solito le madri portavano ai fianchi ma che all’occorrenza annodavano sulle spalle per trasportare i piccoli. Non ho un ricordo di bambini Rom, non uscivano dal loro accampamento, forse i genitori temevano che si scontrassero coi bambini locali. Nessuno in paese comprava i loro magnifici cavalli, ma i compratori venivano dalla Puglia, dal Lazio e dall’Abruzzo. Ai miei compaesani vendevano soprattutto maiali, provvedevano anche a sanarli, cioè a sterilizzarli (U sanapurcieeelle! Gridavano). La loro visita era normale e per un po’ il paese si popolava di colore. Quando ripartivano, lasciavano nell’aria l’odore dello sterco di cavallo e tanta paglia nell’accampamento dove, noi bambini, andavamo a curiosare, sperando che ci svelasse chissà quali segreti.
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