da Valerio Morucci Il carcere ha un enorme peso. Cemento, acciaio, pietre per migliaia di tonnellate. Si potrebbe dire che è un prodotto da industria pesante. Quella su cui aveva puntato il socialismo staliniano e quella che il capitalismo occidentale ha dovuto abbandonare da tempo. Ma fino al boom economico l’industria pesante tirava eccome. Espansione dei consumi di ‘beni durevoli’, erano chiamati. Durevoli, duri, pesanti. Automobili, frigoriferi, lavatrici, televisori di spesso legno pieni di valvole e metallo. Tutto un mondo fondato sull’elettro-meccanica. La pesantezza del carcere-penitenziario, prodotto ottocentesco, aveva ancora in quegli anni un rapporto con la pesantezza della società. Ma quella società è stata messa all’angolo dall’avvento dell’informatica. Silicio, rame, un po’ di plastica. Ci sono ancora le automobili, treni, aerei, lavatrici, c’è ancora la pesantezza, ma nessuno di questi pezzi di ferro funzionerebbe senza l’elettronica. Tutto il ritmo del mondo, della nostra vita, è scandito dall’inconsistenza, dall’assoluta leggerezza dei bit. La potenza di calcolo che trenta anni fa stava in un, pesantissimo, calcolatore a nastri che occupava uno stanzone, oggi può stare nel palmo di una mano. La domanda è: “Quale’è oggi il rapporto tra l’enorme pesantezza del carcere e un mondo il cui ritmo vitale è dato da bit privi di peso?”. Da un’altra visuale si può prendere la pena. Quella della velocità. Il mondo di 70 anni fa andava a una velocità enormemente minore del mondo attuale. Nella stessa quantità di tempo sarebbe oggi possibile vivere. almeno, un paio di vite di quelle vissute in quegli anni. Vale a dire che in una stessa quantità di tempo la vita è molto più densa, vissuta. Se venti anni di vita ne possono valere quaranta di quelli vissuti allora, come la mettiamo con una pena a venti di quegli anni di carcere? Ne varrebbe quaranta di quelli di oggi? Perchè la vita è diventata più veloce, densa, vissuta ma le pene sono ancora quelle stabilite negli anni ’30.
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