CANNE AL VENTOda Katia Quaranta
A scuola era il classico tipo bello e dannato, di quelli che le brave ragazze guardano di sottecchi. Aveva un paio d’anni meno di me e corteggiava la mia migliore amica. Lei era la più bella della scuola oltre che una ragazza seria e studiosa. Gli aveva detto di no per anni, poi un bel giorno d’estate, quando la scuola era ormai finita, era diventata la sua ragazza. Ma era durata poco. Poche settimane dopo avevamo scoperto che se la intendeva con un’altra. Una molto meno carina e seria. Lo avevo incontrato e gli avevo detto: sei proprio un cretino. Lui non mi aveva risposto. Tornando a casa mi ero chiesta cosa spingesse la gente a desiderare qualcosa fino al momento esatto in cui la si è ottenuta o a distruggere con un colpo di mano ciò che faticosamente si è conquistato o costruito. Da allora non lo avevo più incontrato. Gli anni sono passati. Ogni tanto mi capita di vederlo per strada quando torno dal lavoro in macchina. Qualcuno mi ha detto che ha avuto seri problemi con la droga. E’ ancora bello ma è come se avesse smarrito per sempre la sua anima. Ieri sera impazzava la bufera. Casa mia dista circa mezz’ora dal luogo in cui lavoro. Nel tragitto attraverso una strada di campagna buia e piena di buche, in inverno non è il massimo e dulcis in fundo quasi sempre mi tocca aspettare dieci minuti buoni al passaggio a livello. Non vedevo l’ora di tornare al tepore del mio piccolo appartamento e bere una tazza di thé accoccolata sul divano. Era proprio a questo che stavo pensando quando, in attesa che passasse il treno, nella semioscurità ho scorto una figura appollaiata sul muretto che fa da confine tra la carreggiata ed un canneto oltre il quale i campi si perdono a vista d‘occhio. Ho impiegato qualche minuto per rendermi conto che si trattava di lui. Se ne stava immobile fra le canne agitate dal vento, vestito con una felpa leggera, il volto sferzato dalla pioggia, lo sguardo perso nel vuoto apparentemente incurante della natura che infuriava intorno a lui. Per un momento ho pensato di scendere dalla macchina, avvicinarmi, accarezzargli il viso come una madre, quella che non ha mai avuto, parlargli piano come si fa ad un bambino. In quell’istante il treno è passato con il suo fragore assordante. La sbarra del passaggio a livello si è alzata, le macchine in attesa hanno preso a muoversi ed io con loro. L’ho lasciato lì al vento ed alla pioggia a fissare nel vuoto.
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