L’EX PRESIDENTE SI RACCONTA A SABELLI FIORETTILa biografia di un mattatore matto tutto da slegare, Francesco Cossigadi Marina Valensise sul Foglio
Riservato ai matti. Ai matti veri, quelli che non si vergognano di ammettere che il matto è solo l’altra faccia dell’intelligente, e per capire la realtà bisogna accettarne le contraddizioni, le variabili impazzite, magari praticando l’arte imprevedibile dello scherno e dell’autoscherno. Parliamo del ritratto di Francesco Cossiga (“L’uomo che non c’è”, Aliberti editore, 150 pagine, 14 euro). L’ha dipinto, in forma di intervista, Claudio Sabelli Fioretti, un altro matto nella stampa italiana, di quelli che se ne vanno a piedi da Gorizia a Ragusa e prima di scrivere cento righe su uno sconosciuto scribacchino ne studiano le gesta come se fosse Nerone. Potete immaginare l’incontro tra i due. Un’intervista che si legge d’un fiato, come un romanzo picaresco della politica italiana, o un breviario di storia o un dialogo teatrale pronto per la messa in scena – e ci vorrebbe davvero pochissimo, due sedie, un riflettore, e qualche fermo immagine degli ultimi sessant’anni come sfondo. Eh sì, perché proprio di questo si tratta, gli ultimi sessant’anni vissuti, raccontati, analizzati e sputtanati dal quel gran matto e mattatore della politica italiana che è Cossiga. Sardo, ma non sardignolo; democristiano e cattolico ma anticlericale; notabile della politica ma mai politicante, uomo di potere avvezzo ai segreti della Repubblica ma non al punto da farsene condizionare; conoscitore della macchina dello stato e contemporaneamente maestro di candore ma sempre avvertito, ligio alle norme, irreprensibile, e forse per questo mai davvero potente, a dispetto di una carriera che l’ha propulso – deputato, ministro, presidente del Senato e poi della Repubblica – ai vertici dello stato. A parlare con Sabelli Fioretti, si dev’essere divertito moltissimo Cossiga, che benché sardo, è uomo spiritosissimo e dotato di vigoroso senso dell’umorismo. Inseguendolo come il gatto col topo, anche se i ruoli sembrano rovesciarsi a ogni battuta, gli ha raccontato di tutto, prendendolo per il naso facendogli umettare i segreti della Repubblica, e sorprendendolo come solo un fantasioso mattatore matto, con implacabile metodo, poteva fare. “Though this be madness yet there’s method in it” viene da dire con Shakespeare.E infatti, sin dalla prima domanda, “Presidente, lei è matto?” Cossiga risponde di sì. Ammette di esserlo come Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, un grande nella storia dell’utopia, venerato dalla chiesa come un santo perché, rifiutò la supremazia di Enrico VIII, e si fece tagliare la gola con l’accusa di tradimento. Cossiga riconosce di aver fatto “cose un po’ strambe” per farsi ascoltare, non avendo dietro di sé potentati economici né politici né culturali. Racconta come la Dc l’abbia lasciato solo quando finì al Quirinale, come De Mita lo odiasse, come Aldo Moro ne caldeggiasse l’ascesa contro Andreotti e come cadde in depressione quando il segretario Dc venne ucciso dalle Brigate rosse: “Mi svegliavo di notte urlando che ero stato io a ucciderlo”. Racconta Cossiga l’impari lotta con uno psicoterapeuta che finì per ritrovarsi lui in analisi, e rivela molti retroscena del sequestro Moro, quando sui muri delle città il suo nome veniva scritto col K e due croci uncinate. Prigioniero delle Br, Moro si confessò con Antonello Mennini, un viceparroco sfuggito a ogni controllo nonché figlio del vicedirettore generale dello Ior. Giorgiana Masi fu uccisa per sbaglio da un manifestante che le sparò alle spalle, fatto mai rivelato “per non aggiungere dolore a dolore”. E poi si parla di tangentopoli, dei costi della politica, del complotto impossibile, di Borrelli, “uno che va a cavallo, un piccolo borghese che vorrebbe essere un aristocratico”, e di Eugenio Scalfari, “il Voltaire italiano”, con cui la lite dura da anni, “uomo di presunzione infinita”, “crede veramente di essere un grande filosofo e un grande letterato. Invece non è nemmeno un grande giornalista. Solo un grande direttore”. A ruota libera, Cossiga dà anche voce alla difesa di Craxi, “non dico latitante perché era un amico. Ma tecnicamente era latitante”, alle riserve per Veltroni, “designato da Clementina Forleo, che ha messo D’Alema in difficoltà”, mentre Rutelli, non si è accorto che il Pd l’ha messo “fuori gioco”. Alla fine, c’è anche spazio per la filosofia politica: “Non sono di destra perché credo nel peccato originale” dice Cossiga, che quindi non crede nella società perfetta dei comunisti fiduciosi nella palingenesi sociale. Fautore della società imperfetta, difende la volontà umana che occorre per renderla “perfettibile”. E per questo è pronto a riconoscere solo quattro grandi statisti nella storia italiana: Cavour, Giolitti, Mussolini e De Gasperi. Un vero matto insomma, ma tutto da slegare.Marina Valensise
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