da Ludik
Ci sono sere dove il tempo non basta. Devi stringere, devi fare in fretta. Il riflettore sulla tua testa si sta spegnendo, il tuo giocattolo si sta rompendo. Il garage affollato e afoso, a due passi dal campanile, a due passi dal mare, è qualcosa di più dello scalcagnato studio televisivo di una tenace tv di paese, vecchia zia del decimato esercito delle cosiddette “telestreet” italiane. È un presidio democratico, stai per dire. Oppure è il capezzale delle tue ingenuità, pensi. Sono le dieci e cinque minuti di un martedì sera d’estate. Gaeta, vecchia fortezza decaduta, cittadina tirrenica di ventimila anime, periferia dell’audience. Canale 42, buco nelle frequenze, ti-emme-o, Tele Monte Orlando, ancora per poco. “Non possiamo accettare telefonate, ci spiace, stavolta abbiamo davvero i minuti contati” esordisce Antonio Ciano, il tabaccaio mezzo comunista e mezzo borbonico che negli ultimi tre anni si è guadagnato l’appellativo di “Masaniello dell’etere”. Davanti a lui, sul tavolo, una pila di fogli, pieni zeppi di firme. Migliaia di firme, certificate. Firme di cittadini che non volevano perdere la loro tv di paese. Tanti, tanti. Vecchiette di vicoli pure loro mobilitate contro il regime. “Questa emittente ha dato alla città di Gaeta quell’anima che aveva perso”. Questa tv, che è nata nel tinello di casa sua, è divenuta nel giro di un paio d’anni una sorta di agorà virtuale paesana. Prima pirati, poi comunitari. “Da domani vedrete quelli che subentreranno, quelli che ora si strofinano le mani, i lecchini, i servi del potere”.Lo diceva pure il solito McLuhan che la tecnologia elettrica fa scattare molecole intense, riattiva strutture tribali. Anni spesi tra l’illusione di sentirsi acrobati e il dubbio di essere dei nani. “Ecco, volevo solo dire: grazie gaetani”. Poi ci sono lacrime da asciugarsi, in diretta, davanti a tutti. Il microfono passa a Damiano, il figlio riformista del brigante onesto. Parla delle tremila firme, del sindaco che voleva sottoscrivere la petizione facendo finta di dimenticare di esserne il destinatario, delle antenne che non si trovano, della libertà che da fastidio, delle minestre di paese. “Tmo non morirà vedrete. Sono sicuro che torneremo. Ma se non torneremo potremo vederci in città, guardarci negli occhi, da uomini veri, da uomini liberi”. Il microfono passa di mano in mano. Su quegli schermi è passata la meglio fauna provinciale, e non solo. Ci hanno scritto tesi e girato documentari. “Vincente – scrisse una volta Michele Serra – è inventare il nuovo, scovarlo, immaginarlo, a partire dal sociale, dal disperso, dal negato”. La televisione è stato il più adulto dei loro giochi, la più infantile delle loro imprese. Ora la scena è surreale. Si commuove pure la cronista del Messaggero. “Che facciamo?”. “Dobbiamo staccare l’antenna, lo so”. Quel pasticciaccio bello della telestreet gaetana Tmo pare davvero squagliarsi, a Ferragosto, nelle sabbiosità di provincia. Nel finale di “Videodrome” quando Max preme il grilletto lo schermo di fronte a lui si spegne. Qui invece fanno un piano largo. Nel garage un po’ sgarubbato. Col conto alla rovescia. E di colpo, come in un romanzo di Gibson, “il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto”.
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