Repubblica, 27 dicembre 2005
L’agitazione sull’amnistia è servita almeno (e non è poco) a costringere a ragionare sulla nuda materia del regime carcerario. La quasi totalità dei detenuti italiani, sistemati a strati come sgombri in scatola in celle bastanti per poco più della metà dei reclusi attuali, è costituita da immigrati, da meridionali e da poveri. La statistica dice, rimettendo un poco di ordine nella nostra smemorata percezione del mondo, che la questione detta un tempo di classe è, oggi, esattamente, come ieri, la sola che davvero conta e pesa: il crimine e la violenza prosperano in presenza di basso censo e basso livello culturale. Buoni avvocati provvedono, poi, a sperequare ulteriormente le condizioni di partenza, evitando la galera ai clienti più facoltosi: si ripensi al leggendario caso di O.J.Simpson, assolto per il rotto della cuffia grazie alla potenza di fuoco del suo collegio di avvocati: un nero miliardario è prima miliardario, e poi nero. Questo non sposta di una virgola il problema, cocente, della certezza della pena, e della giustizia che va resa a chi è vittima di un reato. Ma ricolloca la questione carceri nel suo corretto alveo, che prima di essere etico è politico; i detenuti sono in maggioranza poveri, e poveri anche di voce e di peso sociale, di amicizie influenti e di protezioni politiche. Ricordarsene vuol dire anche ricordarci che non siamo affatto uguali di fronte alla legge.
Nessun commento.
Commenti chiusi.