da Santi Urso
Un gentile corrispondente mi ha rivolto una domanda sull’acultura del giornalismo (e me ne accorgo solo ora, mi scuso per il ritardo, ma guardo il blog assiduamente si’ pero’ con la tecnica con cui Woody Allen ha letto Guerra e pace). 500 battute non bastano, naturalmente, per una risposta illuminata da D’Alema, ma vorrei chiarire un equivoco che ho ingenerato. Non ho mai detto (o almeno non intendevo dire) che il prodotto giornalistico non possa entrare nel bagaglio culturale di chi ne usufruisce: è il lavoro giornalistico che è per sua natura aculturale. La cultura, tra l’altro, è sedimentazione e possibilita’ di stabilire confronti e relazioni: un giornalista che facesse cio’ offrirebbe noia mortale (dall’Irak al big bang, che palle tentare di essere politicamente e scientificamente esaustivi) e, soprattutto, non scriverebbe quasi piu’ con l’andar del tempo. Il giornalismo e’ spettacolo, il cui nocciolo e’ formato di dibattito e polemica (ovviamente spicciola e contingente). Il giornalismo vende emozioni. A scanso di equivoci, queste sono tutte descrizioni, in cui non vi e’ nulla di svilente (e si riferiscono alle alte diffusioni, che peraltro sono le uniche socialmente interessanti: quando si parla di auto si parla di Fiat, Ford, Toyota, non di Bugatti). D’altra parte una cospicua dimostrazione di cio’ e’ fornita proprio dalle valutazioni che nel blog si leggono su Daria Bignardi. Provo per lei venerazione (e presuntuosamente aggiungo: non da oggi), ma sono stupito che nei peana non ci sia una parola per l’oculato, decisivo intervento di hair stylist e scollature (1. continua) cordialita’ dalemiche (e un po’ messinesi)
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