di Gianluca Freda
Il primo articolo di Massimo Fini lo lessi su un Linus della fine degli anni ’80 (credo). In esso Fini spiegava, con argomentazioni che mi parvero assurde, le ragioni del proprio sostegno alla Lega Nord. Fini era stufo quanto me dell’immobilità asfittica e putrida della Prima Repubblica, ma era meno prudente. Vedeva nella Lega il grimaldello che poteva scardinare quel sistema, e aveva ragione; ma non capiva quanto peggiore del male fosse il rimedio che si era andato a trovare. Non capiva, lui intellettuale, quanto barbariche e anti-intellettuali fossero le pulsioni su cui il suo partito puntava per ingrandirsi. Dopo di allora Fini ha avuto torto molte volte, e ragione altrettante, in entrambi i casi con ottime argomentazioni. Il suo motto «la democrazia è un metodo, rispettando il quale devono essere accettati tutti i contenuti, anche quelli portati da Haider» era così ben argomentato che solo dopo molto tempo mi sono reso conto di quanto fosse sbagliato, e perché. Di sicuro, Fini non è un voltagabbana: non ha mai cambiato idea, e se lo ha fatto non ne ha certo tratto vantaggio. Non ha sfruttato le sue amicizie di destra (Feltri) per far carriera nell’era del berlusconismo, come pure avrebbe potuto. Ed ha accettato la propria emarginazione, ben sapendo che è questo il destino a cui va incontro nel nostro paese chi decide di essere di parte, ma non di partito. Sono io, semmai, caro Granata, che, nel mio interesse, la sua emarginazione non l’accetto. Non ho mai creduto che i “te la sei voluta”, sibilati con disprezzo agli uomini coraggiosi (anche se, a volte, in errore), possano giovare all’utilità collettiva.
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