da Vittorio Grondona
Negli anni fine ’40 e ‘50, finito l’anno di scuola, nella popolazione meno abbiente era normale trovare per i figli un’occupazione spesso non remunerata. Per non lasciarli in mezzo alla strada tutta l’estate, si diceva. Era poi una buona occasione per imparare un mestiere e nel contempo si dimostrava anche un ottimo sistema di insegnamento di vita. Nessuno soprattutto si sognava di considerare la cosa come uno sfruttamento dei minori, anzi. A dieci anni un ragazzino era già in grado di aggiustare la sua bicicletta e poteva aiutare i genitori in piccoli lavoretti. Le ragazzine sapevano già cucinare e qualcuna anche rammendare. Queste attività che sembrerebbero di poco conto apportavano invece nella modesta casa un contributo notevole. La paghetta settimanale era una cosa bellissima e nei ragazzi c’era la stupenda convinzione di essersela guadagnata. Oggi non è più così. Poveri o ricchi che siamo, guai a responsabilizzare un ragazzino mettendolo di fronte alla vita reale. Sarebbe un delitto, i bambini devono giocare e i ragazzini devono studiare. Forse è per questo che abbiamo così bisogno di lavoro extracomunitario, spesso in nero, e delle produzioni a basso costo dei cinesi, grandi o piccoli non importa, purché il guadagno di abili ed egoisti imprenditori sia alto ed immediato. Moltissimi nostri giovani arrivano a trent’anni cantando alle stelle e poi devono accontentarsi di lavori precari e noiosi, spesso in grigio al nord ed in nero al sud, senza prospettive future. Quelli di pregio li faranno gli extracomunitari che grazie al nostro attuale sistema ludico e godereccio nella società di domani saranno gli unici a saperli fare. Quando i nostri figli diventeranno vecchi si accorgeranno solo allora che vivere in una società di cicale porta come risultato una svolazzante manciata di mosche.
Nessun commento.
Commenti chiusi.