Sergio Romano per il Corriere della Sera
Un uomo d’affari, presidente di un gruppo assicurativo, parla al telefono più volte con un magistrato e gli chiede un’amichevole consulenza a proposito di un’indagine giudiziaria che potrebbe sfiorarlo. Il magistrato, presidente di un Tribunale di sorveglianza e già dirigente di spicco di una sigla sindacale dell’ordine giudiziario, lo ascolta benevolmente, restituisce le telefonate e, sembra, lo tranquillizza. E’ «penalmente rilevante» ciò che è accaduto fra Giovanni Consorte, presidente di Unipol, e Francesco Castellano, presidente di un tribunale milanese ed ex vicepresidente dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati? Forse no. Probabilmente non sono stati commessi reati né divulgati segreti d’ufficio.Come ha osservato Luigi Ferrarella ieri sul Corriere, se i procuratori di Milano avessero sospettato il peggio avrebbero trasmesso gli atti a Brescia, competente per i procedimenti contro i magistrati milanesi. Ma li hanno trasmessi a Roma, dove sono in corso indagini sul caso Antonveneta. Se è così, siamo tutti più tranquilli. Se un magistrato eminente si prestasse a favorire un amico nell’ambito di un’indagine proprio nel momento in cui la magistratura sciopera contro la riforma della giustizia e accusa il governo di attentare alla sacrosanta indipendenza dell’ordine giudiziario, saremmo sbigottiti e sconcertati. Possiamo tirare un sospiro di sollievo.Ma forse il codice penale non è il solo metro della correttezza di un magistrato o del buongusto di un imprenditore. Ciò che è accaduto sembra dimostrare che l’unico tessuto connettivo della società italiana è la cuginanza. Al di sopra dei diversi ruoli di cui ciascuno è investito, siamo tutti cugini, vale a dire membri di una famiglia allargata.Le famiglie sono numerose. Esistono anzitutto quelle in senso stretto, legate dal sangue, ma vi sono anche le famiglie ideologiche, politiche, religiose, accademiche, professionali, sportive, sindacali, rotariane, massoniche e giù giù sino a quelle mafiose e criminali. L’appartenenza a una famiglia non esclude l’appartenenza a un’altra.In questo grande puzzle di lealtà incrociate l’italiano può essere magistrato ma progressista, professore ma cattolico, industriale ma compagno di scuola del vecchio sindacalista con cui deve negoziare un contratto di lavoro. Certe frequentazioni mondane, come quelle di alcuni magistrati con Cesare Previti o di alcuni banchieri con chi dovrebbe essere da loro sorvegliato, sono purtroppo l’inevitabile rischio di questo vizio nazionale.Molti magistrati hanno addirittura difeso il loro diritto ad avere contemporaneamente più di una lealtà. Quando Elena Paciotti lascia la presidenza dell’Anm per diventare parlamentare europeo nelle liste ds, non avverte il senso di una contraddizione o di un conflitto. Quando un magistrato di Napoli decide di prendere parte a una manifestazione di no-global, dimostra di non avere dubbi e scrupoli di coscienza. Quando Felice Casson, procuratore di Venezia, assiste a un congresso di Rifondazione comunista e si dimette per candidarsi il giorno dopo alla carica di sindaco, è in pace con se stesso. Il Consiglio superiore della magistratura non ritiene che queste scelte, finché non saranno proibite dalla legge, siano deplorabili, e noi siamo tutti felici che i custodi del diritto non abbiano commesso un reato. Ma nessuno potrà impedirci di dire sommessamente, parafrasando Giosue Carducci, che questa Italia dei cugini non ci piace.
Nessun commento.
Commenti chiusi.