di Marco Travaglio
Premesso che quanto è accaduto ieri alla Camera è roba da squadristi. Premesso che Chiara Moroni è in Parlamento perché l’hanno eletta e ha il diritto di dire ciò che crede senza essere insultata. Premesso che chi ha malmenato Renzo Lusetti in aula non dovrebbe metterci piede mai più. Ecco, premesso tutto ciò, forse il modo migliore per ricordare Sergio Moroni, l’ex tesoriere del Psi lombardo morto suicida il 2 settembre ’92 nella sua casa di Brescia dopo un avviso di garanzia per finanziamento illecito, è quello di rileggere la sua lettera di addio al mondo, inviata all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano. In quella lettera – diversamente da quel che ha detto la figlia Chiara l’altro giorno alla Camera e hanno scritto ieri vari giornali – non compariva mai la parola “innocenza”. Perché Moroni non si proclamava affatto innocente, ma partecipe di un sistema illegale, pur sostenendo che così facevan tutti e che le inchieste (com’era inevitabile, del resto) colpivano soltanto alcuni (quelli raggiunti da prove o chiamati in causa dai complici), in una “ruota della fortuna” che “assegna a singoli il compito di vittime sacrificali”. (SEGUE)
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