da Peter Freeman
Caro Csf, su Pantani ho letto in questi giorni poche cose. In genere detesto l’orgia dei necrologi e degli omaggi ex post, anche se nel giornalismo sono necessari. Pero’ due cose vorrei dirle anch’io, e me ne scuso.Mi sono occupato di sport per tanti anni e un po’ me ne occupo ancora. Da spettatore confesso che lo sport mi da’ sempre meno emozioni. Il calcio lo guardo come si guarda uno show televisivo, con molto distacco e occhio clinico. Mi emoziona (molto) il rugby e anche l’alpinismo che, pero’, in televisione non ci va. Per fortuna.Marco Pantani e’ stato l’ultimo atleta ad emozionarmi. E quando dico “emozionarmi” vuol dire che quando partiva in salita a me veniva un groppo alla gola, non scherzo. Gli ho voluto bene. Perche’ aveva un fisico assurdo, le orecchie aguzze, la pelata, la faccia di uno che soffre, soffre e soffre. Perche’ era uno scalatore e quando vedeva le montagne gli scattava dentro qualcosa, lui che era di Cesenatico. Perche’ il suo modo di andare in bici era quello che piaceva a me. Miguel Indurain e’ stato un ciclista quasi perfetto, ma era un passista, rapporti lunghi e potenti, poteva anche non alzarsi sul sellino. Pantani era quanto di piu’ imperfetto uno possa immaginare in un atleta. Gianni Mura, domenica su “Repubblica”, ha trovato la definizione giusta: per molti di quelli che amavano Pantani (senza se e e senza ma), lui ora era “disperso in Russia”.Dal gelo della sua Russia e’ riemerso cadavere. Ed io ci sono rimasto male come un cane. Come atleta era finito da un pezzo. Come uomo no, ma l’uomo non mi e’ stato dato di conoscerlo da vicino. Del doping non parlo: e’ uno schifo e a Pantani ha fatto piu’ male che ai tanti suoi colleghi che lo praticano. Basta cosi’.
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