lettera dell’avv. Caterina Malavenda a Paolo Mieli (Corriere della Sera)
Qualche sera fa a «Otto e mezzo», il direttore del Giornale Maurizio Belpietro, intervistato da Barbara Palombelli e Giuliano Ferrara, si lamentava giustamente di aver subito una perquisizione, essendo indagato per violazione del «segreto istruttorio». Mi ha sorpreso, però, sentirlo sostenere che saremmo in presenza di una procedura inusuale, adottata solo in ragione dell’oggetto dell’inchiesta, l’affare Telekom Serbia, e di una certa ostilità della magistratura nei confronti del suo giornale. Questo non è vero. Da anni difendo i giornalisti e molte volte ho assistito ad accuratissime perquisizioni presso le loro abitazioni, oltre che nelle redazioni. Ho visto portar via centinaia di documenti (una volta il contenuto di un intero armadio), sigillare computer, sequestrare cellulari. Nel novembre del 1994 ho passato una notte intera al Comando dei Carabinieri di Via Moscova con i due giornalisti che – sul giornale allora diretto da lei, caro Mieli – avevano pubblicato la notizia dell’informazione di garanzia all’on. Berlusconi: la redazione del Corriere e le loro case vennero rivoltate come un calzino. Ancora nel marzo dello scorso anno Ferruccio de Bortoli, su questo giornale ha scritto una lettera aperta al Procuratore di Roma che aveva disposto perquisizioni nei confronti di giornalisti del Corriere e di Repubblica . In ciascuna delle occasioni che ho ricordato e in tutte le altre, non ho sentito altro, che le scontate difese degli organismi di categoria. Se vogliamo discutere della perquisizione come possibile strumento di limitazione della libertà di stampa, parliamone pure, ma senza far finta che non sia mai stato usato prima.
Questa la risposta di Paolo Mieli
——————————————————————————–Caro avvocato Malavenda, anche io – che ovviamente mi associo senza tentennamenti alla protesta contro la perquisizione al Giornale – sono stato sorpreso dal veder trattato l’argomento come se fosse la prima volta che è accaduto qualcosa del genere. Quel tipo di violenza nei confronti del lavoro giornalistico, i cui caratteri intimidatorii sono ben evidenti nell’«operazione» contro il quotidiano di Maurizio Belpietro, non è nuovo nel rapporto tra media e magistratura. Io stesso – per mia fortuna assistito da lei, cara Malavenda – ho avuto modo di assaggiare quel manicaretto, qualche anno fa. E preferisco non ricordarne il sapore. È altresì vero, come lei ricorda, che in quelle circostanze la solidarietà di categoria fu minore (assai minore) di quella tributata oggi a Belpietro e al giornalista Gian Marco Chiocci. Ma non me ne dolgo. Anzi, per quel che riguarda il Giornale , davvero mi compiaccio che i tempi siano evoluti in questo modo. Con una punta di invidia, però. Ho notato che tra le numerose attestazioni di vicinanza, Belpietro ne ha ricevuta una dal Bolscevico , foglio del minuscolo Partito comunista marxista italiano: pur non avendo «alcuna simpatia» verso il Giornale , «totalmente schierato con il governo del neoduce Berlusconi» – hanno scritto i superstiti del glorioso gruppuscolo che fu devoto a Mao – «condanniamo la perquisizione perché riteniamo che la lotta politica debba escludere la lupara giudiziaria e poliziesca». Ed è la prima volta, se non erro, che un sorprendente gesto di fair play viene addirittura dall’aldilà (o quasi). Di qui, il mio rodimento.
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