Non bisognerebbe mai dividere gli uomini in categorie e poi parlar male dell’intera categoria solo perché un membro di questa categoria ci sta sulle palle. Ma la categoria dei tifosi fa eccezione. Il tifoso è l’uomo più vicino alla demenza. E’ l’uomo che se un difensore della sua squadra uccide un attaccante avversario con un colpo di bazooka dice che era un colpo involontario ed il rigore non c’è. Il tifoso è il classico uomo con le fette di prosciutto sugli occhi. Fa il tifo per una squadra di Milano che va in campo con undici stranieri. E perché un siciliano fa il tifo per l’Inter e la Juventus? Una volta i tifosi della pallacanestro tifavano per squadre che avevano il nome della città. Adesso tifano Scavolini, Benetton o Reyer. E se per caso cambia lo sponsor il tifoso deve cambiare anche l’urlo? I tifosi sono esagerati . Non ammettono ironia, scherzi, critiche. Una volta, ad “Un giorno da pecora” tentammo di far indossare la maglietta della Lazio ad un famoso attore romanista. Saltò in aria come un tarantolato e scappò via abbandonando la trasmissione. Conosco persone serie, timorate di Dio, posate, prudenti, rispettosi della legge, che di fronte ad una partita non sanno comportarsi da persone civili. Vedono rigori dovunque, l’arbitro è sempre venduto, non hanno mai il minimo dubbio, solo certezze. Il tifo è veramente una malattia grave. Io tornerei a fare il tifo per una squadra di calcio il giorno in cui fosse obbligatorio schierare solo giocatori non solo italiani, ma addirittura nati nella citta o nella regione della squadra stessa. Come succede per le nazionali. Vi immaginate Messi che gioca con l’Italia? O Donnarumma nella porta del Qatar? Lo so, è una idea un po’ cretina. E impossibile da realizzare. E allora va bene così. L’irrazionalità non mi avrà. Viva Tamperi, viva Goggia, viva Federica Pellegrini. Anche quando andavano in giro con quelle orrende divise disegnate da Armani. Noi nazionalisti siamo fatti così.
Ormai di interviste non ne faccio quasi più. Anzi non ne faccio proprio più. Ma una volta ne facevo tante. Anche più di una alla settimana. Le facevo per Sette, per Anna, per GQ. Se andate nel blog dove le ho tutte raccolte (http://interviste.sabellifioretti.it/) ne trovate quasi 600 o forse di più. Per una attività così frenetica ho dovuto darmi delle regole. La principale delle quali era: devo far rileggere le interviste agli intervistati? La mia risposta era: “Si”. Nel libro “Voltagabbana”, Marsilio editore, nel quale ho raccolto tanto tempo fa una cinquantina di interviste, quelle che consideravo le più interessanti, spiegavo il ragionamento che mi aveva portato a questa decisione, nel capitoletto dedicato al mio colloquio con il politico Teodoro Buontempo:
“Alla fine dell’intervista io lo avvertii che gli avrei mandato il testo perché potesse dargli un’occhiata. È un abitudine che ho. So che molti colleghi la considerano una pessima abitudine. Io invece sono convinto del contrario. A mio giudizio un intervistato ha diritto di controllare le sue parole. Posso sbagliare qualcosa, posso aver capito male, può ripensarci. Non è un favore che gli faccio. È un’opportunità che mi prendo. L’intervistato, sapendo che rilegge l’intervista, è più sciolto, ha fiducia, dice di più, anche in presenza di un registratore. E quando rilegge l’intervista fa pochissimi aggiustamenti. Generalmente. Ci sono stati casi in cui di questa “cortesia” qualcuno ha abusato. I giornalisti, spesso, quando vengono intervistati, si mettono a fare i pignolini. Cambiano le virgole, gli avverbi, gli aggettivi. Qualcuno si è anche arrabbiato, non riconoscendosi in quello che io ho scritto. Con un’attrice, Ida Di Benedetto, è stata una rissa. Telefonò perfino all’editore, Cesare Romiti. Ma alla fine ho vinto io. È stata una bella battaglia anche con Paolo Cirino Pomicino. Una sola volta ho perso. Con una collega, Antonella Boralevi. Alla fine l’intervista non è uscita. Ho sbagliato, non avrei dovuto cedere. Ma mi aveva stremato. Dall’altra parte c’è anche chi, letta l’intervista, ti telefona e ti dice: “Stupenda. Non credevo che potessi riassumere così bene tre ore di conversazione”. Oppure: “Non credevo di parlare così bene”. Ombretta Colli non ha voluto cambiare una virgola. Il caro amico Filippo Ceccarelli mi ha telefonato: “Come potrei cambiare qualcosa? È pura poesia”.
Ma Teodoro Buontempo li superò tutti. Mi disse: “Io non voglio leggere l’intervista prima”. Ma è un piacere che le chiedo. “È un piacere che non le faccio. Leggerò l’intervista come tutti, comprando Sette dal giornalaio”.
Nella tesi di laurea scritta da Massimo Costa (titolo: L’intervista: storia, ecniche ed evoluzione di un genere giornalistico), l’autore, che mi aveva intervistato a lungo, e mi aveva chiesto di spiegare se secondo me fosse meglio far rileggere o no, scrive: “
Come mai lei è così convinto che si debba far rileggere l’intervista dopo che la si è scritta? Per molti invece non si dovrebbe mai far rileggere.
Sono giuste tutte e due le posizioni. Io preferisco far leggere l’intervista perché le mie interviste durano anche quattro ore. E’ giusto quindi che l’intervistato veda come è stato effettuato il lavoro di sintesi.
Accetta sempre le correzioni?
Questa è la fase “polemica”. L’intervistato chiede e propone delle correzioni. Io insisto, ma solo se ne vale la pena. L’ultima parola non è la mia. Io riconosco all’intervistato il diritto di cambiare fino alla fine. Al 99 per cento vinco io.
Il rapporto tra intervistatore e intervistato è sempre di parità? Oppure visto che ha sempre a che fare con i potenti rischia di subire il ruolo di chi ha di fronte?
No, anzi. Spesso è l’intervistato ad avere soggezione proprio perché non sa che fine faranno le sue idee. Promettergli la rilettura lo tranquillizza e lo dispone a maggiore sincerità. Alla fine i cambiamenti che chiede, nella maggioranza dei casi, sono minimi.
Nel caso di Ruggero Guarini però è riuscito a pubblicare una pseudo-intervista anche se lui l’aveva diffidata dal farlo…
Guarini si è comportato in maniera arrogante. Pretendeva non di correggere alcune cose ma di bloccare l’intervista nonostante riconoscesse che non conteneva cose false o inventate. Diceva che era “mutila e tendenziosa” Ma tutte le interviste sono mutile perché è inevitabile tagliare quattro o cinque ore di conversazione
La domanda che adesso vi faccio è: secondo voi è giusto come facevo io che facevo rileggere le interviste oppure è giusto come teorizzavano, e teorizzano, Stefano Lorenzetto e Gian Antonio Stella, che non lo facevano e non lo fanno?