da Massimo Puleo
Ma l’Orient Express faceva pure il viaggio di ritorno?
da Cinzia Opezzi
Qualche anno fa, epoca Chiampa, ho tenuto compagnia al cane di un mendicante in via Roma, a Torino, mentre lui andava a giocare d’azzardo. mi ha spiegato che non potevo sedermi perchè è vietato – dovevo stare in piedi – mentre ero lì si è fermata una macchina e mi ha dato della carne – per il cane – raccomandandomi il cane – bellissimo pastore tedesco a pelo lungo… In effetti privare i mendicanti dei cani è un duro colpo a loro e a probabilmente anche ai cani – che con loro hanno la possibilità di stare in giro tutto il giorno invece che chiusi da qualche parte ad aspettare il padrone – Sul gioco d’azzardo? niente da dire
Si può chiedere l’elemosina sotto i portici? Sì.
Si può andare in giro con un cane sotto i portici? Sì.
Si può chiedere l’elemosina sotto i portici andando in giro con un cane? No, a Torino no. Comma 22 del nuovo Regolamento Animali. Ma anche in altre città il problema è all’ordine del giorno. Sembra che non ci sia consiglio comunale che non si faccia carico del fondamentale problema e non individui la soluzione nel divieto.
Io non credevo che fosse una situazione così drammatica. Ma sapete com’è la gente…Il problema non è che esistano i mendicanti che dormono all’aperto, sotto un ponte o su una panchina e che non abbiamo soldi per mangiare. Il problema non sono queste tremende sacche di povertà cui non si riesce, se non in rarissimi casi, a trovare una soluzione. Il problema è che i mendicanti, anzi gli accattoni, come li chiama la gente perbene, si accompagnano a cani. I cani sono riservati alle persone benestanti, quelle che la sera vanno a dormire a casa. Agli altri, a quei poveretti che casa non ce l’hanno, la compagnia del cane è vietata. Si configura il reato di maltrattamento perché i poveri cani sono costretti a dormire al freddo. Che dormano al freddo i mendicanti non preoccupa nessuno. Ma se i mendicanti costringono i cani a dormire come loro, beh, allora vanno multati e i cani confiscati e – come dicono alcuni articoli di regolamenti comunali – “restituiti ai loro padroni”. Cioè accalappiacani e canili.
Ma dietro c’è il racket. C’è sempre un racket quando non si riesce a risolvere un problema. Il racket degli accattoni che assegna loro i “posti” e li rifornisce di cani che li aiutino nel commuovere i cittadini. Comunque è pronta la soluzione. Basta togliere i cani agli accattoni e nessuno mollerà più una lira. Perché poi il problema è quello: non bisogna fare l’elemosina agli accattoni che tanto ci pensa lo Stato a fornire loro cibo e tetto. E i cani? Chissenefrega. Adesso c’è Draghi e ci penserà lui.
…e, in occasione dei festeggiamenti per un anniversario importante, scrissi un articolo sul Fatto Quotidiano in cui raccontai i miei tre mesi alla Repubblica. Questo:
C’ero anche io. Si c’ ero anche io. Nella storia del giornalismo italiano io posso essere ricordato come uno dei fondatori della Repubblica. Avevo 32 anni. Ero un ragazzino, promettente ma ragazzino. E per di più disoccupato. Un tipo precoce, insomma. Avevo cominciato a fare il giornalista nel 1968, a Panorama. Dopo sei anni mi ero montato la testa ed ero andato a dirigere Abc. In pochissimo tempo avevo trasformato il settimanale del divorzio e delle tette in un organo di estrema sinistra.
Un disastro. Assunsi Lidia Ravera, Saverio Tutino, Giulio Mastroianni, Guido Passalacqua… Non ci volle molto: l’ attacco ai carabinieri, l’ articolo di Renato Curcio latitante e il tracollo delle copie. Il passo inevitabile fu la chiusura. Ma io ero uno dei pupilli di Lamberto Sechi, il mitico direttore di Panorama. Panorama era di Mondadori e Mondadori era il 50 per cento di Repubblica. Ricordo ancora come fosse ieri Eugenio Scalfari che venne a Milano ad assumermi e mi fece vedere il progetto, per convincermi.
Io mi sarei fatto convincere anche se mi avesse mostrato 64 pagine vuote. E accettai ancora prima che me lo chiedesse. Capo servizio dello sport. Era il novembre del 1975. Cominciammo a lavorare al progetto e poi, tra il dicembre e il gennaio, cominciammo a realizzare i numeri zero. Mai nessun giornale è nato con un numero così incredibile di numeri zero. Mi sembra che ne facemmo venti. Unico caso al mondo. Erano numeri del tutto normali, raccolta delle notizie, articoli di fondo, interviste. Era un dramma.
Facevamo interviste vere.
Andavamo da un politico, da un vip, da un calciatore, gli sfracassavamo i maroni per un’ oretta e alla fine lui giustamente ci chiedeva: “Quando uscirà l’ intervista?”. E noi dovevamo confessargli: “Non uscirà mai”.
A me piaceva il progetto di Repubblica. Per me non era abbastanza di sinistra ma potevo accontentarmi vista l’aria che tirava nei quotidiani italiani. E poi ci lavoravano tanti miti del giornalismo di allora. Per lo più socialisti ma erano di sinistra i socialisti, allora. Io lavoravo nella redazione milanese.
Proprio di fronte alla mia c’era la scrivania di Massimo Fini che ha raccontato in maniera fantastica il suo disagio l’altro ieri su queste stesse pagine. L’imbarazzo di Massimo potevamo leggerglielo in faccia. Non era il giornale per lui. Lui era un anarchico. Per vedere quanto stava male bastava osservarlo alla scrivania. Sembrava una pecora triste, sofferente, abbacchiata.
Non mi meravigliai quando ci disse che se ne andava. La Repubblica non aveva superato il periodo di prova. Quei tre mesi furono entusiasmanti, ma anche molto incasinati. Io ero capo servizio dello sport ma dopo qualche giorno mi dissero che lo sport non c’ era. La redazione era molto radical chic e lo sport, allora, non era né radical né chic. “E io?”, chiesi. Per farmi stare buono Scalfari mi disse che mi promuoveva vicecapo della redazione milanese.
Le cose funzionavano così: ogni due o tre giorni io e Gianni Locatelli, il capo della redazione milanese, prendevamo l’ aereo e andavamo a Roma per la riunione di redazione. La riunione di redazione era la classica messa cantata, però al contrario degli altri giornali la messa non era celebrata dal parroco ma dal papa in persona, Eugenio.
Parlava quasi solo lui, con incedere lento e pensoso.
Mentre parlava oscillava la testa a destra e a sinistra. Noi tutti eravamo lì ad ascoltarlo in adorazione. E se decidevamo di prendere la parola (io no, lo giuro, io non ho mai parlato, mai) lo facevamo oscillando anche noi la testa a destra e a sinistra. Ogni tanto squillava il telefono. Era il presidente del Consiglio, il segretario della Dc, il presidente della Repubblica.
Eugenio partiva con una sottile analisi della situazione politica e noi lì ad ascoltarlo, in religioso silenzio mentre ammaestrava i suoi interlocutori. Poi si decideva che cosa avremmo dovuto mettere sul numero zero dell’ indomani. L’ indomani sul numero zero non c’ era nulla di quello che avevamo deciso. Allora, pazientemente, Gianni Locatelli telefonava a Eugenio ed Eugenio gli spiegava che “caro, è vero, avevamo deciso diversamente ma poi la sera siamo andati da Marta e nel dopocena, chiacchierando, abbiamo deciso di cambiare tutto”.
Sospetto che sia stato in un dopocena da Marta che fu decisa la morte dello sport e che sia stato in una serata analoga che fu decisa la resurrezione dello sport. Quando Eugenio mi comunicò la resurrezione dello sport io dissi: “Bene, e chi lo fa?”. Risposta: “Tu”. Ed io dissi: “Io no, io sono stato promosso vicecaposervizio della redazione milanese, non puoi retrocedermi a capo dello sport”.
Ero un ragazzino sprovveduto e rompicoglioni. Cominciai a sbuffare. E quando, dopo tre mesi dal primo numero, un gruppo di dissidenti dell’ Espresso, capitanato da Lino Jannuzzi e Carlo Gregoretti, abbandonò i vecchi amici per andare a rifondare Tempo Illustrato, io andai con loro. Una decisione imbecille.
Ero un ragazzino rompicoglioni e avventato. Mi bastarono pochissimi giorni per capire la sciocchezza che avevo fatto. Telefonai a Gigi Melega, il redattore capo, mio grandissimo amico, e gli dissi: “Gigi, vengo a Roma a piedi con il capo cosparso di cenere e i ceci sotto le ginocchia. Devi dire a Eugenio che gli chiedo scusa e voglio tornare”.
Gigi era simpatico, generoso e anche molto ottimista. Mi disse: “Claudio, non preoccuparti, vado a dirglielo subito, aspetta al telefono, non attaccare e prepara la valigia”. Rimasi al telefono e sentii i suoi passi, tip tip tip, raggiungere l’ ufficio accanto. Dieci secondi. Gli stessi passi, tip tip tip, lo riportarono indietro. Pensai: “È fatta”. Gigi prese la cornetta in mano. Io, ansioso: “Che cosa ha detto?”. E Gigi: “Ha detto: neanche morto”.
Eugenio era fatto così. Era rancoroso, permaloso, malmostoso. Se l’ era legata al dito. Voglio raccontare un episodio. Un giorno dalla segreteria arrivò un messaggio: “Il grande capo Dalla Chiesa vuole parlare con te”. Lui, presuntuoso com’ era, capì “il grande capo della chiesa” e pensò che il Papa volesse parlargli.
Passò i giorni seguenti chiedendo a tutti come avrebbe dovuto vestirsi per l’ evento. Fu talmente insistente che i colleghi capirono l’ equivoco e dovettero spiegargli che lo aveva invitato il generale, non il pontefice. Eugenio, scusami, non avrei dovuto raccontare l’ episodio. Ma sono permaloso anch’ io e me la sono legata al dito.
Il sito si chiama “Quelli che hanno fatto la Repubblica”. Lo ha fondato, e lo gestisce, Beppe Lopez, uno dei “vecchi” del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. C’ero ance io in quegli anni, a partire dai numeri zero, e per questo mi piace leggere quello che scrive Lopez. Per curiosità e per nostalgia. Ma anche perché Beppe segue il mondo del giornalismo con attenzione. E fa le pulci alla Repubblica (ma anche agli altri quotidiani) come tutti quelli che ricordano i tempi e i modi “severi” degli anni eroici e non si ritrovano più nelle pagine di questi giorni senza più i vecchi editori e i vecchi direttori. Quelli ai quali piace girovagare nel mondo di giornali e giornalisti trovano interessante questo sito di Beppe Lopez che non perde occasione per svelare le magagne di oggi o per ricordare quei giorni entusiasmanti così diversi da quelli di oggi. Chi ha ricordi precisi di allora rimane basito prendendo in mano le pagine di oggi. Un po’ come succede ai “vecchi” di Panorama quando capita loro, incidentalmente, di guardare una copia del Panorama di oggi. Una sensazione tremenda e sgradevole. Visto che le cose stanno così, meglio leggere il sito di Beppe Lopez.
Vi avevo promesso (o erano minacce?) che vi avrei raccontato ancora qualche episodio della mia avventurosa parentesi trotterellosa.
La Bibina non se lo meritava di avere un brocco come me sul sulky. Alla fine della corsa mi guardò con enormi occhioni da rimprovero come per dirmi: “Ma proprio a me dovevi capitare?”. E pensare che fino alla partenza era andato tutto bene. Era il mio esordio del fantastico mondo del trotto. Avevo trovato qualcuno gentilissimo che mi aveva prestato una tuta invernale, ottima cosa visto che pioveva a San Siro quel giorno e la pista era un pantano. Un altro che mi aveva prestato un casco. La prudenza non è mai troppa comunque il casco era obbligatorio. E un terzo che mi aveva rifornito di regolamentare frustino. Io avevo guardato il frustino e avevo detto: “Mai lo userò”. Lo avevo detto ad alta voce perché Bibina mi sentisse. L’allenatore mi aveva dato le istruzioni. Mi aveva detto che La Bibina correva da sola, bastava lasciare le guide (le briglie, ignoranti), poggiargli il frustino sul culo, e fargli qualche versetto con la bocca, come quello per chiamare il gatto. Micio micio. Il sulky era comodissimo e non mi facevano nemmeno male i muscoli delle gambe. Avevo passato la visita medica e anche l’esame di guida che mi aveva fatto il presidente della giuria. Mi aveva detto anche che durante la sgambatura che precede sempre la gara, ero andato troppo forte. Critica che mi aveva fatto anche l’allenatore. Ma io non ero andato forte. Aveva fatto tutto lei, la Bibina. Io avevo perfino nascosto il frustino perché non lo vedesse. Insomma, quando si è fatta l’ora della gara sono andato al controllo dei microchips (per evitare imbrogli da parte di chi magari si presenta con Varenne mascherata da brocco) e poi sono entrato in pista. Ma me la sono presa un po’ comoda e sono arrivato in ritardo alla partenza. La macchina dello starter si era già messa in moto quando io ero ancora a cento metri. Ho corso così, praticamente da solo, tutto il tempo all’inseguimento, urlando micio micio alla Bibina. Devo dire che non mi dispiaceva l’idea di non avere gli altri fra i coglioni. E poi la Bibina volava. Era chiaramente la più forte di tutti. Alla fine li abbiamo ripresi quei bastardi. E abbiamo anche preso parte ad uno straccio di volata. Ma non siamo riusciti ad andare oltre il nono posto. L’allenatore mi ha guardato brutto. La Bibina ormai andava talmente forte che mi sono fatto un altro giro. Scusa Bibina, lo so che con un altro alla guida avresti sicuramente vinto, lo so. Ma ho le mie giustificazioni. Era la mia prima gara. Una settimana prima non sapevo nemmeno che cosa fosse il trotto. Era un po’ rincoglionito. Ero emozionato. Lo starter non era stato gentile con noi, avrebbe anche potuto aspettarci. Ma andò così. Scesi dal sulky, mi avvicinai al tuo orecchione e ti dissi sottovoce: “Ci rifaremo un’altra volta. Micio micio”.
Ecco, vi ho raccontato la storia della mia prima gara. Qui di seguito trovate il link ad una gara che feci in seguito. E vinsi. Scrissi una cartolina alla Bibina. Con dedica.
da Silvia Palombi
Allora: mi dà fastidio l’accento al posto dell’apostrofo (pò), mi dà fastidio pure il contrario (e’), mi danno fastidio i verbi declinati (mi ha amata, mi ha spinta giù dalle scale, mi ha inseguita eccetera), mi da enormemente fastidio vedere scritto c’ha e anche c’a perché si legge sempre ca: checazzecca. Mi piacerebbe che si scrivesse come faceva il Belli, o era Trilussa? che cià, che cianno, guarda che amici ganzi che ciò e via dicendo. “Nella misura in cui” si è spento serenamente. e meno male, ma adesso ha messo radici “Chiedo per un amico” che è carino ma come sempre il troppo stroppia. Si registra un calo dell’assolutamente sì / no, e di nuovo meno male, mentre, anche se si nota meno, continua a godere di buona salute sapevatelo che non reggo veramente più. Insomma cioè volevo dire che mi danno fastidio un sacco di cose e chissà quante ne ho dimenticate. Ah ecco apericena mi fa venire le fitte al fegato. concludo con mistero da svelare: l’abitudine dilagata ormai dall’alpi alle Madonie, andiamo a fare l’aperitivo. Allora io l’aperitivo lo prendo, chi lo fa è il barman. –Cara Silvia, concordo su tutto. Ma non ne posso più di fare il maestrino correggendoti punti, virgole, maiuscole. Datti da fare. Basta un po’ di impegno. (csf)
Allora: mi dà fastidio l’accento al posto dell’apostrofo (pò), mi dà fastidio pure il contrario (e’), mi danno fastidio i verbi declinati (mi ha amata, mi ha spinta giù dalle scale, mi ha inseguita eccetera), mi da enormemente fastidio vedere scritto c’ha e anche c’a perché si legge sempre ca: checazzecca. Mi piacerebbe che si scrivesse come faceva il Belli, o era Trilussa? che cià, che cianno, guarda che amici ganzi che ciò e via dicendo. “Nella misura in cui” si è spento serenamente. e meno male, ma adesso ha messo radici “Chiedo per un amico” che è carino ma come sempre il troppo stroppia. Si registra un calo dell’assolutamente sì / no, e di nuovo meno male, mentre, anche se si nota meno, continua a godere di buona salute sapevatelo che non reggo veramente più. Insomma cioè volevo dire che mi danno fastidio un sacco di cose e chissà quante ne ho dimenticate. Ah ecco apericena mi fa venire le fitte al fegato. concludo con mistero da svelare: l’abitudine dilagata ormai dall’alpi alle Madonie, andiamo a fare l’aperitivo. Allora io l’aperitivo lo prendo, chi lo fa è il barman.
–Cara Silvia, concordo su tutto. Ma non ne posso più di fare il maestrino correggendoti punti, virgole, maiuscole. Datti da fare. Basta un po’ di impegno. (csf)