Mi piace rileggere sia le interviste che ho fatto che quelle che mi hanno fatto. E siccome penso che quello che piace a me piaccia anche a voi, le ripubblico, un po’ per volta. Questa è quella che mi fece Antonella Bersani, per “Punto Com”. Era il 27 giugno 2004.
Claudio Sabelli Fioretti è i suoi capelli. Ricci, voluminosi, anarchici. Il biglietto da visita di un giornalista che ha girato 14 giornali, collezionato cinque direzioni, fughe, licenziamenti e ritorni. Sabelli Fioretti ha affrontato di petto le sue battaglie, pagato in prima persona. Con due soli rimpianti: il quotidiano del gruppo Espresso e la mazzetta dei giornali gratis: “Partecipai alla fondazione di Repubblica, ma fui sedotto dal progetto di Tempo Illustrato e la abbandonai. Lasciare Repubblica, che cazzata!”.
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Mai vista una cosa del genere. Sinceramente: anche io sono rimasto colpito dagli applausi che i dipendenti e i funzionari di Palazzo Chigi, dalle finestre della Presidenza del Consiglio, hanno riservato all’ex premier Giuseppe Conte che se ne tornava, almeno apparentemente, alla vita civile tenendo per mano la sua compagna Olivia, mentre Rocco Casalino addirittura piangeva. Mai vista una cosa del genere. Tempo poche ore, la frase l’ha pronunciata Danilo Toninelli. E allora ho cominciato a pensare che c’era qualcosa che non funzionava. Quello che dice Danilo Toninelli, per definizione, è incerto. Va controllato. E così ho scoperto la verità, grazie all’ottimo Sebastiano Messina il quale, essendo giornalista, è andato a controllare, forse anche lui messo in sospetto dall’intervento entusiasta di Danilo Toninelli. Non ci voleva tanta fatica. Bastava entrare nell’archivio dell’Ansa. Ed ecco allora riemergere gli applausi rivolti, 22 anni fa, a Romano Prodi che se ne andava dopo aver consegnato la campanella nelle mani di Massimo D’Alema, primo ex comunista presidente del consiglio. Inedito assoluto. Forse. Mai giurarci. Ma se Danilo Toninelli, allora ventiquattrenne, lo avesse detto in quella occasione, sarebbe stato perdonabile. Ma oggi no. Perché l’inedito assoluto si è ripetuto ancora qualche volta, o per meglio dire, sempre. Quasi sempre. I dipendenti e i funzionari di palazzo Chigi si sono affacciati alle finestre ed hanno calorosamente applaudito Giuliano Amato, Romani Prodi (inedito assoluto, due volte applaudito) Silvio Berlusconi, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. I dipendenti e i funzionari di Palazzo Chigi sono di bocca buona, un applauso non lo negano a nessuno. Come anche, ormai, è diventata imbarazzante e scandalosa prassi quella di battere le mani durante i funerali al passaggio della bara con annesso defunto. Ma forse questa è una similitudine che non era il caso di fare.
Matteo non se ne fa una ragione, non riesce più a fischiare alla pecorara.
Mi sono addentrato nei meandri di Clubhouse e sono rimasto intrappolato. Io che quanto a social sono alle elementari (non sono riuscito ad andare oltre Facebook, che mastico ancora con grande difficoltà) di fronte alla Casa del Club (o al Club della Casa?) sono rimasto estasiato. Non ho ancora ben capito a che cosa serva, come funzioni esattamente, come si faccia ad entrare e come si faccia ad uscire, ma mi affascina. Sto ore ad ascoltare senza avere il coraggio di parlare. Vado da una stanza all’altra. Incontro Rosario Fiorello, Andrea Delogu, Gianluca Neri, Luca Bizzarri. Chiacchierano, urlano, ridono, ridono, ridono. Si chiamano tutti per nome ed io quando sento Eugenio che chiama Francesco penso che sia Scalfari che chiama il Papa. Dropping name, il linguaggio dei potenti. Dallo schermo arriva una voce di qualcuno che si è accorto che sono tra il pubblico. Mi dice: “Claudio, entra alza la manina”. Ma io codardo mi nascondo, faccio finta di non aver sentito, volto lo schermo dall’altra parte, tossicchio e alla fine spengo tutto. Quindici secondi dopo di nuovo lì. Rientro di soppiatto, sperando che nessuno se ne accorga. Sono un guardone.
L’importante non è vincere, ma nemmeno partecipare. L’importante è guardare.
Adesso riempirà lo zaino, caricherà figlio e moglie e prenderà la via delle Indie (della Nuova Zelanda? del Bhutan? del Kirghisistan? della Namibia?) da dove ci invierà dispacci sulla situazione della democrazia nei paesi remoti. Li leggeremo sul Fatto Quotidiano, li vedremo sulla Nove, ci abbevereremo al verbo sul suo sito Internet (o Istagram? o Tik Tok? o Clubhouse?). Ma non temete, tornerà. Tornerà quando Di Maio non potrà più candidarsi e nemmeno Toninelli per non parlare di Crimi. Un Dibba non scompare facilmente. Un Dibba non è per sempre ma nemmeno per poco.
da Muin Masri
Dimenticate Renzi e il suo ingresso nudo in parlamento. Dimenticate il pallone portato da casa da Grillo e del suo scarso palleggio con Di Maio. Dimenticate i giornalisti con il vizio del tifo per Conte. Dimenticate la finta réunion del Partito Democratico. Dimenticate Berlusconi, il cavaliere dimezzato. Dimenticate le folcloristiche mascherine di Salvini. Dimenticate lo stalking della Meloni a Mattarella con il suo “al voto, al voto…”. Avete dimenticate tutto? Bene!
Avete presente quel tizio che prende in mano una nazionale di calcio lacerata da infortuni, svuotata da squalificati e spogliatoio spericolasamente spaccato in tanti, troppi gruppetti? E poi, come per magia, inventa una squadra rispettabile dal niente. Ecco, a breve la squadra di Mario Draghi scenderà in campo e non per insultare, deridere e delegittimare gli avversari, come hanno fatto finora tutti i partiti, ma per tirare fuori il meglio di un paese stanco di perdere e lottare per ogni cosa. D’altronde basta un pareggio 0-0 per riprendere la capacità di sognare. E come diceva Saba “nessuna offesa varcava la porta”.
Il pareggio 0 a 0 mi sta bene, basta che non faccia catenaccio. (csf)
monumento che ricorda la strage di Podhum
da Mario Quaia
Ogni anno, il 10 di febbraio, le destre nostalgiche si mobilitano per ricordare i tragici eventi delle foibe e l’esodo dei Giuliano-dalmati. In verità il ricordo vuole andare oltre: contrapporre i crimini del comunismo (che sono esistiti, intendiamoci) alla prassi ormai consolidata di celebrare la giornata della memoria (in omaggio alla shoah) e il 25 aprile, festa della Liberazione, giornate che hanno segnato l’approdo tombale per tutto ciò che ha rappresentato il nazifascismo. Secondo i primi due firmatari della legge – Menia e La Russa, entrambi protagonisti nella storia del Msi, e già questo la dice lunga – avrebbe dovuto rappresentare un momento di riconciliazione. Dopo 15 anni, si sa, mai ricorrenza fu così divisiva.
Il perché è presto detto: l’Italia non ha mai fatti i conti con il proprio passato. Contrariamente alla Germania, passata sotto la scure dello storico processo di Norimberga, e non solo: ha rimosso i crimini anche dalle proprie coscienze. Capi di Stato e di Governo si sono recati in processione, inginocchiandosi nei campi di concentramento e nei luoghi della memoria di maggiore impatto: da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, solo per citare luoghi simbolo in Italia. Hanno chiesto perdono e hanno deposto una corona o un fiore nei cippi che ricordano i loro eccidi.
In Italia nulla di tutto ciò. L’esercito italiano di occupazione nell’ex Jugoslavia ha commesso gli stessi delitti dei nazisti. Stragi, esecuzioni di massa, rastrellamenti, devastazioni, incendi di interi villaggi, razzie di tutti i tipi. Eppure nessuno ha pagato. L’ordine del duce era chiaro: “Mettere tutto a ferro e fuoco e dimostrare la determinazione dei soldati italiani”. Il simbolo di queste rappresaglie si chiama Podhum, nell’entroterra di Fiume. Tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 in tutto) furono condotti in una vicina cava e uccisi a raffiche di mitragliatrice. Altre centinaia di persone morirono nel campo di concentramento di Arbe.
Dopo la fine della guerra il governo jugoslavo ha chiesto a più riprese la consegna di più di 700 militari ( tra i quali i generali Roatta e Robotti) comandanti del contingente italiano di occupazione per essere processati per crimini contro l’umanità. La loro estradizione non fu mai concessa. E nessun politico italiano si è mai recato in quei luoghi per chiedere perdono o deporre un fiore. Come nulla fosse accaduto.
E io da italiano mi vergogno, ma mi vergogno proprio.
da Massimo Puleo
Matteo Salvini ha chiesto di sposare Carola Rackete sulla Sea Watch 3 al largo delle coste libiche, testimoni quattro migranti appena presi a bordo