da Alberto Veneziano
C’è quella vecchia storiella del cumenda milanese in gita a Napoli che vede un tizio stravaccato in un angolo con un cappello davanti e non può capacitarsi. “Ma cosa fai li, ma tirati su che sei giovane, ma trovati un lavoro”… e perché? risponde quello. “Ma come perché! Il lavoro nobilita, l’articolo uno, il dovere di contribuire, guarda me: ho cominciato a prendere calci in culo che avevo le braghe corte ma adesso sono arrivato!” E perché ? “Ma come perché! Quando arrivi come me puoi vivere senza lavorare!” … E io mò che sto facendo? (troppo lunga)
Vivere per lavorare o lavorare per vivere? (il meno possibile e possibilmente per niente). Due soluzioni a cui non applico criteri moralistici, entrambe dignitose. Da una parte l’homo faber, pervicacemente dedito alle sue creazioni e ai suoi traffici, sempre immerso nell’ansia e nelle nuove sfide, dall’altra Diogene nella sua botte a pensare, ma anche Socrate, chiacchierone perdigiorno. Nella mia natura “bastarda” questo dilemma mi lacera a livelli quasi schizzofrenici, sono un po’ questo e un po’ quello. E’ la cultura che ti entra nello spirito e decide, ma se non c’è prevalenza netta allora sei sempre in bilico. Ma è sicuramente CULTURA il lavoro del “tasi e tira” che produce silenziosamente ricchezza, ed è altrettanto CULTURA la parola, lo studio, la meditazione.
Ma il dilemma che mi attanaglia è molto esteso. Possono fare “società” l’homo faber e il filosofo? E dura, dura, dura. Anche nel nostro millenario, avanzato “laboratorio” nazionale di esperimenti sociali, e chi dice che l’Italia è un paese arretrato non ha capito niente, è dura, dura, dura, e se si fa per forza allora “dura minga”.
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